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Chi studia con Tsipras come ridurre i debiti (non solo della Grecia)

Questa analisi è stata pubblicata sul quotidiano il Foglio diretto da Claudio Cerasa

Il fantasma della Conferenza internazionale sul debito del 1953 – quella che dimezzò i prestiti contratti dal Terzo Reich – non è stato evocato solo da Alexis Tsipras come precedente per la riduzione del debito greco. Prima che ad Atene quel fantasma si è materializzato nelle ovattate stanze della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea dove il tema della fuoriuscita dalla crisi finanziaria è molto sentito.

La consapevolezza che dal cappio del debito non si esce con le sole politiche di austerità sta guadagnando terreno un po’ ovunque, tranne forse che negli uffici della Bundesbank e in quelli del Bundefinanzministerium di Berlino. Ora lambisce anche la Bri, la banca centrale delle banche centrali fondata negli anni Trenta, manco a dirlo, per risolvere il problema delle riparazioni di guerra della Germania.

La Grecia ha colpe gravi e antiche, ma quale che sia l’esito della sfida che Atene ha lanciato all’Europa, essa ha il merito di avere squarciato il velo su una finzione di cui nei circoli finanziari ha preso atto la maggior parte degli operatori e non da ora: con queste politiche il debito greco, come i debiti di altri paesi europei e non, non verrà mai ripagato.

Dunque che fare? La grande stampa inglese e americana ha già preso una posizione assai “aperturista” nei confronti di Atene. Anche l’editoriale del Financial Times del 31 gennaio, pur criticando l’esordio troppo garibaldino del nuovo governo ellenico, ha ribadito che l’unica soluzione è un compromesso che preveda un alleggerimento della posizione finanziaria di Atene.

I media europei sono più cauti: temono le ricadute interne di eccessive concessioni al nuovo governo di Tsipras. Negli uffici della Bri la discussione ha un elevato tasso tecnico e non è focalizzata sulla situazione di specifici Paesi ma un allarme generalizzato è squillato da tempo.

Nei Paesi del G-20 lo stock di debito è aumentato dallo scoppio della crisi finanziaria di 40 trilioni di dollari a dispetto delle politiche fiscali restrittive e del deleveraging. La Banca non dà molto credito all’efficacia di politiche monetarie espansive non convenzionali dalle quali teme possano scaturire nuove bolle speculative più che un aumento della crescita reale e ha concentrato la propria attenzione sulla questione dell’inarrestabile corsa del debito pubblico e privato che è visto come la vera causa della crisi.

Secondo il suo direttore generale, lo spagnolo Jaime Caruana, “non ci sono soluzioni facili per risolvere il problema”. Ma in una conferenza organizzata dalla Bri a Lucerna già prima delle elezioni greche, Caruana ha dovuto affrontare una maggioranza di opinioni favorevole a una qualche forma di sollievo del debito, in particolare come soluzione alle difficoltà crescenti dei paesi periferici dell’Eurozona, come la Grecia.

Il capofila di questi opinionisti è l’economista americano ed ex consulente della Federal Reserve, Benjamin Friedman, che si rifà ai precedenti storici. La Germania ha beneficiato nel secolo scorso di due cancellazioni del debito. Dopo i tagli accordati con il Piano Dawes del 1924 e il Piano Young del 1929, nel 1932 la Conferenza di Losanna cassò i debiti per riparazioni di guerra della Germania dietro la promessa della emissione di una tranche di bonds cui non fu mai dato seguito. Nel 1953 la Conferenza sul debito di Londra cancellò metà del debito del Reich e riscadenziò a 30 anni il resto con un abbuono di 5 anni sul pagamento delle quote capitale: “Non si vede quali siano le basi economiche ed etiche – spiega Friedman in linea con Tsipras – per le quali la Germania è il solo paese europeo al quale può essere accordato un taglio di queste proporzioni”.

Secondo Friedman l’esperimento di una moneta senza Stato effettuato in Europa produce paradossi. Se per esempio uno degli Stati membri fallisce, si presume anche che esca dall’euro. “Sarebbe come se negli Stati Uniti, il fallimento dell’Illinois o della California, che in passato effettivamente sono falliti, ne provocasse l’uscita dall’area del dollaro”. Inoltre i Paesi fiscalmente forti concedono crediti ai paesi fiscalmente deboli, ma quando questi ultimi vanno in difficoltà i creditori sono considerati “vittime”, non agenti economici che hanno fatto scelte volontarie e consapevoli. Ai debitori invece vengono imposte politiche restrittive procicliche destinate ad aggravare il problema. L’approccio europeo al debito, secondo Friedman, ha radici etiche e religiose. Rimanda alla “retributive philosophy” del protestantesimo evangelico, per cui il debito è peccato e i debitori devono essere puniti.

Secondo il capoeconomista della banca HSBC, Stephen King, la riduzione del debito può essere ottenuta, oltre che con il suo rimborso, “attraverso un aumento dell’inflazione, una qualche forma di ristrutturazione o un default pilotato”. Le politiche monetarie non convenzionali in questa fase “rischiano di essere solo una ulteriore poisonkiller”, un palliativo per guadagnare tempo. Secondo Kenneth Rogoff, ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale e autore di una monumentale storia della finanza (Eight centuries of financial folly), “le riforme strutturali e l’austerità fiscale non bastano a risolvere il problema”. Occorre ricorrere a strumenti come il riscadenziamento, l’inflazione e varie forme di tassazione della ricchezza: “Per i paesi periferici d’Europa è giunto il tempo di un alleggerimento del debito accumulato”.

Alexis Tsipras non è poi tanto solo.

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