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Verità e bugie sulla disoccupazione giovanile

La Commissione europea ha certificato che l’Italia sta uscendo dalla recessione e che la ripresa, ancorchè fragile ed incerta (+ 0,6% del Pil nel 2015 ), è avviata. Ancor più lusinghiere le previsioni del Centro studi della Confindustria che ha definito quello in corso come l’anno dello ‘’spartiacque’’tra la fine della crisi e la ri-partenza dell’economia.

Per quanto riguarda l’occupazione, le statistiche dell’Istat, di solito guardinghe, hanno confermato, a dicembre, le valutazioni, solitamente più ottimiste, del ministero del Lavoro. Tuttavia, anche se si riduce la disoccupazione,  la quota di chi non lavora – sottolinea la Ue – rimane troppo elevata (12,8%).

Sulle giovani generazioni (la flessione è ancora troppo modesta) continua a concentrarsi, per motivi che hanno radici lontane e profonde, il gap dell’inoccupazione. Nel  pieno della crisi, le imprese hanno tagliato quei rapporti di lavoro aggiuntivi a cui ricorrevano, magari con forme lavorative a termine, per fare fronte ai picchi produttivi.

Quanto alle terapie, la sinistra è sempre tentata dalle soluzioni illusorie, tutte incentrate – si veda il dibattito sui decreti attuativi del Jobs act Poletti 2.0 – sul contrasto delle “norme maledette” in materia di flessibilità. Il giro di vite impresso dalla legge Fornero del 2012 non è  ritenuto sufficiente. La minoranza dem pretende di abolire alcuni contratti c.d. atipici (associazione in partecipazione, job on call, collaborazioni) che pur rispondono all’esigenza di regolare, in modo pertinente ed appropriato, situazioni lavorative specifiche.

Addirittura, il ministro Poletti, vorrebbe manomettere la riforma del contratto a termine e ridurre a 24 mesi il requisito dell’acausalità, con conseguente diminuzione del numero delle proroghe. Errori  gravi, questi, perché è vana speranza pretendere di incanalare le assunzioni delle imprese verso il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti usando il bastone dei divieti e delle abrogazioni  insieme alla carota degli incentivi, che, nella legge di stabilità sono certamente robusti, ma che riusciranno soltanto a ‘’drogare’’ il mercato del lavoro, mandandolo in crisi d’astinenza quando le risorse finiranno.

Nel Jobs act emerge, neanche troppo nascosto, il solito filone di politica del lavoro ostile al Pacchetto Treu e alla legge Biagi. Dimenticando, però, che sono stati proprio quei provvedimenti  a consentire – prima della crisi e a fronte di incrementi modesti del Pil –  otto anni di crescita ininterrotta dell’occupazione, i cui esiti non sono stati del tutto cancellati. Ma ci sono altre considerazioni, di  carattere strutturale, che possono spiegare l’attuale situazione delle coorti dei giovani.

Abbiamo una delle più alte percentuali Ue di inoccupazione giovanile tra i 15 e i 29 anni. Nello stesso tempo, vi è un’elevatadisponibilità di posti di lavoro manuale che restano vacanti per mancanza di competenze di chi dovrebbe svolgerli o perché vengono rifiutati. Da noi, inoltre, l’età media del primo impiego è a 22 anni contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi, il 17,8 dei danesi. Il tasso di attività per i laureati dai 25 ai 29 anni è sceso negli ultimi otto anni dall’81% al 68%, contro l’89,1% della media Ue.

Il problema più grave della condizione giovanile in Italia non è la c.d. precarietà, ma la disoccupazione: due fenomeni distinti e diversi. Soffriamo di un minor grado di precarietà di altri Paesi, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è sicuramente tra i più elevati. Da noi, gli occupati temporanei sono saliti al 13,8% del totale contro il 15% della Francia, il 14,7% della Germania, il 15,8% della Svezia e il 18,5% dell’Olanda. Nel Regno Unito (altro miracolo della flessibilità ?) è solo il 6,1%.  E  come si ripartiscono i lavoratori temporanei  nei diversi comparti? Il 54,3% in agricoltura, il 13,6% nelle costruzioni, il 27,9% nel turismo: si tratta di settori dove la stagionalità è insita nel processo produttivo.

Nell’industria, infatti, sono solo l’8,1%.  Nel c.d. lavoro interinale è impiegato l’1,12% del totale degli occupati. Quanto ai parasubordinati – il vero comparto opaco da bonificare  – siamo a livello del 2,4% (1,5% collaboratori e 0,9% lavoratori in proprio; solo lo 0,6% è occupato nell’industria). Trasferendo  i dati riguardanti lo stock degli occupati a livello delle coorti di età, possiamo notare (sempre secondo l’Ocse) che il 46,7% dei giovani italiani oggi ha un lavoro temporaneo. Anche questo, però, non è un primato negativo, perché in Germania sono il 57,2%, in Francia il 55,2%, in Svezia il 57% (mentre in Danimarca il 21%, nel Regno Unito il 13%, negli Usa il 10%).

Nel dibattito, poi, alla ‘mistica’ del precariato si unisce l’illusione della scorciatoia legislativa,   come se bastassero delle norme ad imporre rapporti  “virtuosi”. Per quanto positiva ed utile, anche l’istituzione del contratto a tutele crescenti può rivelarsi una soluzione ‘facilona’ (contornata da un grande appeal mediatico) se a creare posti di lavoro non arriverà l’economia con tassi d’incremento della crescita per ora impensabili. In un regime legislativo più flessibile, invece,  dal 1997 al 2007, bastò che il Pil crescesse ad un tasso medio annuo di poco superiore ad un punto, per creare più di 3 milioni di nuovi posti di lavoro e dimezzare la quota della disoccupazione sia maschile che femminile.

Anche il tasso di disoccupazione giovanile  tra 15 e 24 anni –  pur sempre una difficoltà cronica del nostro mercato del lavoro – presentava performance che adesso sembrano lontane anni luce.Pari al 28% nel 1981, era del 36% nel 1987, del 30,2% nel 1997. Gli effetti benefici del pacchetto Treu, prima, e della Legge Biagi, poi, contribuirono, nel contesto di trend economici di segno positivo, ad abbattere questa statistica di 10 punti percentuali (20,8% nel 2007).

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