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Iran, nemico o “alleato” di Isis?

I pasdaran iraniani sono da tempo attivi in Iraq e Siria, segno evidente di un impegno più che formale della Repubblica islamica contro l’avanzata degli uomini di al-Baghdadi. Per alcuni analisti, c’è però un ostacolo apparentamente insormontabile tra gli Stati Uniti e la definitiva sconfitta dell’Isis: l’Iran stesso.

I sostenitori della cooperazione strategica tra Washington e Teheran sostengono infatti che i due condividano alcuni interessi nazionali comuni nel prevenire l’ascesa dello Stato islamico, che cerca di rovesciare tutti i governi dei Paesi vicini e di assorbirli nella sua visione di un califfato globale. Ma questo argomento, suggeriscono gli ossservatori più critici, trascura il fatto che il regime iraniano spesso persegua il suo stretto interesse ideologico a scapito di più ampi interessi nazionali, com’è avvenuto nel caso della rivoluzione islamista del 1979 che l’ha poi isolato.

LA STRATEGIA DI TEHERAN

A delineare questa ipotesi è un approfondito paper realizzato per il conservatore Washington Institute for Near East Policy dal ricercatore Phillip Smyth. Due dei più importanti attori nel conflitto in Siria – scrive l’esperto – sono Jabhat al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda, e l’Isis, gruppi estremisti sunniti. Ma c’è “una terza visione jihadista, ed è stata probabilmente quella di maggior successo”. Come spiega Smyth, “l’Iran ha utilizzato la guerra civile siriana per espandere la propria influenza sulle comunità sciite nel più vasto Medio Oriente e far progredire gli obiettivi strategici e ideologici del regime clericale“. Il sostegno dell’Iran al regime del dittatore siriano Bashar al-Assad è, d’altronde, ben documentato. Ma lo studio di Smyth ritiene che l’Iran abbia inquadrato il conflitto come una lotta teologica quasi fin dall’inizio, uno sforzo aiutato da “pesanti dosi di retorica anti-americana“, “allarmismo settario” e dalla mobilitazione di “una vasta rete di gruppi militanti” con l’obiettivo di accrescere la sua forza regionale.

L’INFLUENZA SCIITA

In parole povere, per il ricercatore Damasco e Teheran sono alleati strategici, ma l’obiettivo dell’Iran non è mai stato quello di sostenere la dittatura alawita in quanto tale, ma quello di aumentare la forza sciita nell’ormai secolare braccio di ferro con la corrente sunnita dell’Islam. Un obiettivo, secondo il rapporto, perseguito attraverso il finanziamento di vere e proprie milizie che avrebbero perseguitato la popolazione sunnita, spianando la strada all’Isis e inficiando così il lavoro sul campo della coalizione internazionale guidata da Washington e partecipata da accerrimi nemici di Teheran, come Israele, ma anche l’Arabia Saudita.

LE DIVERGENZE IN IRAQ

Questa strategia – entra nel dettaglio il Daily Beast – era già stata evidenziata nel 2007 (e poi in parte rivista, ndr) da un preoccupato David Petraeus. Da comandante delle forze Usa in Iraq (un altro dei territori dove imperversa l’Isis), nel suo rapporto settimanale all’allora segretario della Difesa Gates, il generale rilevò come, secondo i dati raccolti sul campo, Teheran fosse andata ben oltre la lotta per tenere nella sua orbita Baghdad, ma stesse organizzando vere e proprie milizie per combattere l’esercito statunitense. Questi gruppi sciiti estremisti, confessò ad agosto scorso al Guardian un politico rimasto anonimo, sarebbero “uguali nella loro radicalizzazione” a quelli qaedisti e si sarebbero macchiati di violenze ugualmente efferate.
Partendo da queste basi, appare chiaro come un grande patto con l’Iran sull’Iraq – rincara la dose James Phillips dell’Heritage Foundation – sia oggi “un’illusione“. Teheran e Washington hanno nel Paese “obiettivi incompatibili“. Mentre gli Usa “cercano di aiutare gli iracheni a costruire una democrazia stabile“, Teheran “vuole trasformare l’Iraq in uno stato satellite governato da leader sciiti radicali“. Finché questi aspetti non saranno chiariti, sarà difficile – se non impossibile, credono gli esperti – stabilizzare la situazione e sottrarre terreno all’Isis.

L’ANALISI DI PEDDE E JEAN

A respingere questa visione delle cose è Nicola Pedde, esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global studies, che ritiene, invece, che i responsabili dell’instabilità in Siria e Iraq vadano invece ricercati tra le petromonarchie del Golfo. “Siamo di fronte a un conflitto che non ha nulla di religioso e riproporre il solito dualismo tra sciiti e sunniti non funziona. I filmati che i tagliagole dell’Isis diffondono, sono rivolti al mondo occidentale. Ma la partita che giocano in Medio Oriente è soprattutto economica. Viene spesso omesso come nascono questi gruppi jihadisti e soprattutto chi li finanzia. L’Iran ha mobilitato i suoi uomini e non l’ha mai nascosto. Ma la sua è stata una reazione di difesa e non di attacco“. Il riferimento di Pedde è a quanto accade in Siria, dove gli oppositori di Assad sono stati infiltrati da tempo da milizie qaediste e dello Stato islamico, ma soprattutto a ciò che avviene sul territorio di Baghdad. L’ascesa dell’Isis, aveva già spiegato su Formiche.net il generale Carlo Jean, si dovrebbe soprattutto “alla politica settaria del premier iracheno Nouri al-Maliki, discriminatoria nei riguardi dei sunniti, che fino a Saddam Hussein avevano dominato il paese. Fu sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo, per indebolire il regime sciita di Baghdad, sempre più legato all’Iran sciita, nemico principale delle dinastie sunnite del Golfo. Assunse prima il nome di Stato Islamico dell’Iraq (ISI) e, quando scoppiò il conflitto in Siria, quello di ISIS (detto anche ISIL, in arabo Daesh), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria o del Levante“.

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