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Ecco la lezione della Fiat al Sud

Nella graduatoria del reddito per abitante a parità di potere d’acquisto (in dollari costanti del 2005) di 96 regioni appartenenti a sei paesi europei (Austria, Francia, Germania, Italia, Portogallo e Spagna) la Puglia è al 92° posto, la Sicilia al 94°, la Calabria al 95°, la Campania al 96° (con il reddito pro capite più basso: 16.700 dollari nel 2011). Le performance meno critiche tra le regioni del Sud sono quelle dell’Abruzzo (73°: anche se era il 57° nel 2000), della Basilicata (84%), della Sardegna (85°).

E’ quanto emerge da un’elaborazione di dati statistici Ocse (dal 2000 al 2011) pubblicata sul ‘’XIX Rapporto sull’economia globale e l’Italia’’ a cura di Mario Deaglio, di recente pubblicazione per Guerini e associati e il Centro Einaudi.

E’ vero; pure la Lombardia è passata dall’8° al 15° posto (il reddito pro capite da 36.342 dollari, nel 2000, 35.374 nel 2011). Il declino della più importante regione italiana si è verificato nel volgere di pochi anni. La Lombardia ha mantenuto l’8° posto fino al 2003, è restata al 9° fino al 2005 ed è scesa al 16° nel 2009, per risalire al 14° nel 2010. Guidano la classifica delle 96 regioni quella di Amburgo (57mila dollari), l’Ile de France (ossia Parigi, con 50mila), Vienna (47mila).

La prima regione italiana è la Provincia autonoma di Bolzano che occupa il 9° posto, ma scende di ben quattro posizioni dal 5° posto che aveva nel 2000, pur aumentando di circa mille dollari il reddito pro capite (il più elevato in Italia in misura di 39.423 dollari). Purtroppo, le regioni meridionali mostrano una certa stabilità nell’occupare gli ultimi posti della classifica pur evidenziando un’ulteriore retrocessione: nel 2000 la Puglia era all’89° posto, la Basilicata all’85°, la Calabria al 95°, la Sicilia al 92°, la Sardegna all’80°.

In sostanza, sia pure in un trend assai poco gratificante di complessivo arretramento, la crisi ha allargato il divario tra Nord e Sud. Sembra addirittura peggiorata la situazione rispetto a quando nell’Executive Summary del Libro bianco dell’ottobre 2001 (redatto da un gruppo di esperti coordinato da Marco Biagi) erano descritte le principali difficoltà del mercato del lavoro italiano: “La causa principale del gap italiano è ascrivibile al Mezzogiorno, che dista dagli attuali livelli medi Ue di oltre venti punti percentuali sia per il totale, sia per la componente femminile. Il divario territoriale deve essere sommato ai problemi di carattere generazionale.

Le prospettive dei giovani per un rapido accesso al mercato del lavoro, pure se migliorate negli ultimi anni, grazie alle maggiori flessibilità disponibili, appaiono ancora contraddistinte – aggiungeva il testo – da difficili processi di transizione dalla scuola al lavoro, dal lavoro alla formazione e dalla formazione al lavoro. I lavoratori anziani, penalizzati dagli scarsi incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa, continuano a ridurre la loro quota ufficiale nella popolazione lavorativa. Le donne continuano a soffrire di una difficile condizione di accesso e di permanenza sul mercato del lavoro’’.

Ma era proprio l’incipit dello stesso Libro bianco ad indicare una prospettiva di speranza: “La maggiore correlazione tra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione nonché la maggiore diffusione del lavoro atipico, dovute alle misure di flessibilità introdotte a partire dal 1997, dimostrano – era scritto – come vi siano le condizioni affinché, anche in Italia, possa crearsi un mercato del lavoro dinamico, efficiente ed equo”.

Le leggi Treu e Biagi – oggi messe in discussione dal Jobs act Poletti 2.0 – avevano fornito un apporto fondamentale a sbloccare le dinamiche dell’occupazione. Dal 1997 al 2001, il relativo tasso aumentò di quasi 2,5 punti; nello stesso periodo, l’occupazione al Sud salì dal 40,4% al 43,1% , quella femminile dal 36,4% al 41,1%; quella dei giovani – in età compresa tra i 15 e i 24 anni – passò dal 24,7% al 25,9%. In tali quote non erano compresi – lo sappiamo – soltanto nuovi posti di lavoro. In molti casi, i rapporti flessibili avevano agevolato l’emersione di situazioni di lavoro nero, allargando, nel complesso, il campo della trasparenza e dei diritti, almeno fino al 2007.

Poi è arrivato il “grande freddo” della crisi finanziaria ed economica. Sono ancora valide quelle indicazioni d’inizio decennio oppure il Sud sarà condannato a soffrire del solito pregiudizio per cui situazioni socioeconomico differenti devono essere sottoposte, forzatamente, alle medesime regole legislative, fiscali, contributive e contrattuali? Il caso della rinascita degli stabilimenti meridionali della FCA (ex Fiat) sta a dimostrare che la ricerca di nuove forme e procedure più adatte alle esigenze produttive delle imprese può rappresentare una risposta – magari solo parziale – alla sfida di uno sviluppo, non assistito, del Mezzogiorno.

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