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Perché è indigesta l’insalata populista di Salvini. Parla Riccardo Realfonzo

“Meno tasse, meno debito, meno disoccupazione”. È lo slogan con cui il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha illustrato sul Foglio il “decalogo” del suo progetto economico. Un programma che copre un ampio spettro di posizioni politiche mescolate grazie a una marcata impronta populista.

Ma che potrebbe costituire la piattaforma di un’alleanza elettorale con Forza Italia, conferendo al futuro centro-destra un volto protezionista, radicalmente ostile all’euro, anti-liberista, interventista nel mercato, avversario della globalizzazione.

Formiche.net ha voluto approfondire il tema con l’economista keynesiano Riccardo Realfonzo, professore di Fondamenti di Economia Politica all’Università degli Studi del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato dal Financial Times. Lo studioso è anche tra quelli che hanno provato a dare una spallata referendaria al Fiscal Compact in Italia.

Come valuta i 10 punti delineati da Matteo Salvini sul Foglio?

Li ritengo un “pericoloso bestiario”, ricco di contraddizioni e banalità. Vengono ripresi temi keynesiani come la critica al palinsesto macroeconomico dell’Unione monetaria e alle politiche di austerità, che accentuano la divergenza tra le aree centrali dell’Euro-zona e le sue periferie come l’Italia. Ma quei temi sono immersi in considerazioni contraddittorie e fuorvianti, oltre che socialmente inaccettabili.

Il leader del Carroccio propone l’abbandono concordato della valuta unica per recuperare sovranità e flessibilità monetaria favorevole al tessuto produttivo nazionale.

Matteo Salvini chiede meno Europa, ma la soluzione preferibile sarebbe esattamente l’opposta. Cioè avere finalmente più Europa, più coesione tra i popoli e quindi più politiche espansive e redistributive anche sul piano territoriale. Solo una svolta radicale delle strategia economiche, con un nuovo massiccio piano di investimenti pubblici, potrebbe rimettere in moto una crescita equilibrata tale da far compiere un salto economico e di civiltà all’Europa.

E se un cambiamento del genere non fosse messo in atto?

In assenza di una svolta di questo tipo, come abbiamo chiarito con il “monito degli economisti”, l’Euro-zona non potrà reggere. In tal caso il rischio per una ulteriore contrazione dei salari sarà elevato. E certamente, proprio nell’interesse dei lavoratori che Salvini chiama in causa, un’euro-uscita non dovrebbe essere gestita dalle destre.

Per quale ragione?

Come ho mostrato in uno studio recente, l’uscita dall’euro determinerebbe un forte deprezzamento della nuova moneta e conseguente inflazione, con i redditi da lavoro molto penalizzati. In queste condizioni i salari andrebbero difesi tra l’altro con meccanismi tipo scala mobile e con investimenti massicci nel sistema di welfare. Bisognerebbe cioè dare ai lavoratori beni e servizi in termini reali. La Lega Nord propone l’opposto.

Si riferisce all’idea di una riduzione complessiva della pressione fiscale tramite l’introduzione della Flat Tax?

Esattamente. Si tratta di un’imposta fortemente regressiva, che cioè pesa meno sui più ricchi. Essa porterebbe al totale smantellamento del welfare e verrebbero del tutto meno le risorse per politiche anti-cicliche e di coesione territoriale. Insomma, un’euro-uscita gestita dalla destra di Salvini corrisponderebbe all’inferno del mondo del lavoro e a un ulteriore imbarbarimento delle relazioni sociali nel nostro paese.

Matteo Salvini prospetta una crescita del gettito fiscale grazie agli effetti virtuosi della tassa sull’economia reale.

Si tratta di ipotesi del tutto prive di fondamenta scientifiche. Il segretario della Lega Nord sembra riprendere al riguardo, probabilmente senza averne alcuna consapevolezza, le vecchie idee della supply side economics secondo cui la riduzione delle tasse potrebbe innescare la crescita al punto da aumentare le entrate fiscali. Ma si tratta di tesi abbondantemente smentite dai fatti. Direi che queste posizioni sono molto pericolose sia sul piano sociale sia su quello della tenuta dei conti pubblici.

Peraltro la “tassa piatta” proposta dal leader delle “camicie verdi” non è accompagnata da una visione liberista di tagli radicali della spesa pubblica e riduzione del perimetro dello Stato. E Salvini propugna la nazionalizzazione di industrie strategiche in crisi.

Non vi è neanche un filo di coerenza nel suo ragionamento. Si tratta di un’insalata demagogica e populista che mette assieme il rancore verso “l’Europa matrigna”, l’esaltazione del “piccolo è bello” – quando noi sappiamo bene che la ridotta dimensione delle nostre imprese è una delle tare del tessuto produttivo italiano – la difesa dell’occupazione e dei salari con strumenti che in realtà li penalizzerebbero, la fede negli effetti “salvifici” del cambio monetario flessibile, l’ostilità verso trattati di creazione di aree di libero scambio come il Ttip. La Lega li prende e mescola tutto con scaltrezza e spregiudicatezza. Tuttavia sono elementi che non si tengono tra loro. Ma sa cosa mi inquieta di più?

Cosa?

La pochezza della proposta politica progressista del nostro paese. Penso naturalmente soprattutto al Partito democratico, che sta lasciando interamente grandi temi come la lotta contro l’austerità, la critica al quadro macroeconomico europeo, la ridefinizione delle forme dell’intervento pubblico ad appannaggio delle più becere destre populiste. E di personaggi come Salvini. 

La “nuova” Lega Nord può saldare i consensi di un mondo trasversale ostile alla globalizzazione liberista?

Il numero uno del Carroccio coltiva posizioni di chiusura e difesa del locale che sfociano nelle tesi di una destra xenofoba, autarchica, protezionista. Lo fa in forma rozza nei confronti del fenomeno migratorio. E lo argomenta per esempio con furbizia nell’opposizione alla trasformazione delle banche popolari in società per azioni, evocando il pericolo che “esse divengano preda di gruppi finanziari stranieri”.

Le sue campagne possono fare breccia anche nella sinistra?

La mia più grande preoccupazione è che le sue tesi, per quanto fragili e contraddittorie, complici l’insipienza della politica progressista e la crisi profonda dei cosiddetti “corpi intermedi”, possano avere un qualche appeal persino nella parte dell’elettorato di sinistra culturalmente meno attrezzato e più arrabbiato. Direi che siamo messi proprio male.

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