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Libia, ecco la vera minaccia che arriva da Sud

Allarme Libia, immediatamente raccolto e rilanciato in tutte le sedi dai nostri massimi responsabili. Nell’entusiasmo di voler far bene e dare all’Italia un ruolo – al quale comunque non si dovrà, non si potrà e non ci converrà sottrarci – abbiamo tuttavia notato una certa approssimazione, presumibilmente dettata dall’urgenza di licitare per primi, su un terreno dove comunque non avremmo trovato molti concorrenti. Non parlo – si badi bene – di leggerezza o di presunzione, ma forse di una fretta eccessiva nell’esprimersi. E’ vero che siamo stati minacciati di “pioggia di missili” e di sterminio dei “crociati”, ministri in testa, ma non era il caso di esagerare.

Il fatto è che, sebbene mutata nella sua natura, sta ritornando a palesarsi la “minaccia da Sud” di ormai antica memoria. Forse, conviene rammentarne il percorso. Durante quarant’anni di guerra fredda, quando nell’ambito dell’Alleanza, tra le altre incombenze, dovevamo occuparci (e preoccuparci) della così detta “minaccia da Sud”, in Mediterraneo era presente una temibile flotta sovietica (a volte anche due), ma da noi pochi – se non i militari – se ne occupavano (e preoccupavano) in qualche misura. A fronteggiarla c’era la Sesta Flotta della Us.Navy, noi eravamo inquadrati nella Nato, e tanto bastava.

Siamo giunti fino 1986, quando – sorpresa – sono arrivati (forse, perché qualche dubbio è rimasto anche in me, che ero un addetto ai lavori) i due missili Scud-B in regalo dal colonnello Gheddafi. A quel punto ci siamo amaramente accorti che in realtà eravamo soli e che il Sud, in quanto minaccia territoriale all’Italia, era affare nostro. Gli americani si muovevano per conto loro, al di fuori del controllo Nato. Anche quando i Sukoi del colonnello avevano mitragliato la piattaforma dell’Eni Scarabeo VII, e, successivamente, un nostro pattugliatore in crociera di “vigilanza pesca”, avevamo dovuto cavarcela da soli.

Capo del governo era Craxi, il quale, con dimensione da vero statista, da un lato si era imposto (episodio Achille Lauro e fatti di Sigonella) sull’arroganza statunitense e, dall’altro, aveva impostato una grande manovra militare per presidiare il Sud e le isole (operazione Girasole) con truppe, navi ed aerei da caccia. Senza troppi tentennamenti, aveva ordinato all’Aeronautica di predisporre un’eventuale ritorsione immediata con i propri Tornado nel caso di ulteriore lancio di Scud o altri atti ostili. Non è servito, ma eravamo pronti ad intervenire.

Ma, allora, erano altri tempi. E c’erano altri uomini. Poi la guerra fredda è finita, anche Gheddafi si era (forse) ravveduto e per anni la nostra politica (non così l’Eni) si era dimenticata della Libia. Ha ricominciato ad interessarsene solo più tardi, anche sotto la spinta degli sbarchi di quei clandestini (tali sono) che ora chiamiamo “migranti”. Il nostro governo, prima con il presidente Prodi, che aveva avviato le trattative, poi con il presidente Berlusconi, concludeva un accordo molto conveniente che, per la prima volta dopo la fine della guerra, normalizzava le relazioni con la Libia.

Incanto durato poco, perché, con un capo del governo riluttante (questa volta con buone ragioni), l’Italia è stata costretta – anche sotto la spinta del Colle – a salire sulla carrozza umanitaria di Sarkozy all’insegna di una fantomatica “responsabilità di proteggere”, carrozza dalla quale, ovviamente, una volta saliti non è più possibile scendere. Inopinatamente, ci siamo così trovati, contro i nostri interessi o, peggio, per interessi altrui, a contribuire attivamente a quella liquefazione della Libia che oggi è sotto i nostri occhi. Cosa d’altra parte prevedibilissima, tanto che – all’epoca – c’è stato chi – anche in più occasioni – aveva lanciato un inascoltato grido d’allarme. Ora Gheddafi non c’è più, l’accordo è cartastraccia e, in cambio, abbiamo radicato sul territorio una componente dello Stato Islamico (Isis) che, minacciando anche l’Italia e gli italiani, sta prendendo possesso di ogni cosa.

A questo punto, preoccupati, ma anche forse un po’ spaventati, i politici italiani si risvegliano e riprendono ad interessarsi della Libia. Lo fanno a modo loro, non da veri statisti ma, almeno questa è l’impressione – speriamo falsa – che ricaviamo dalle prime battute, da veri improvvisatori. Se è così, allora questa volta ci spaventiamo anche noi. Si sentono dire a caldo cose che, con un minimo di modestia e conoscenza, non si dovrebbero nemmeno pensare.

Cosa, ad esempio, significa peace keeping? Vuol dire operare nell’ambito del Capitolo VI della Carta, ovvero solo se c’è una pace da salvaguardare dopo un accordo. Che nella fattispecie, lo sa bene il povero inviato dell’Onu, Bernardino Leon, al momento è ancora di là da venire, se mai verrà. Se la pace non c’è, bisogna entrare nelle fattispecie del Capitolo VII, ma allora si parla di peace making, di peace enforcing. In altre parole, si parla di guerra: è necessario schierarsi ed essere pronti a sparare, da una parte o dall’altra. Quale?

In Libia le parti sono molto numerose, e non corrispondono affatto ai due governi. Ora c’è l’Isis, che sopravanza tutti senza fare accordi con nessuno (lo abbiamo visto in Siria e in Iraq), e la questione si è maledettamente complicata. In queste condizioni, dichiariamo di voler assumere la leadership di forze multinazionali (egiziane, algerine, dell’Unione Africana?)  destinate prima o poi a combattere, ma senza alcuna standardizzazione con l’Occidente o la Nato (il cui intervento, in ogni caso, ben difficilmente sarebbe accettato a livello locale). Credo proprio che, con dichiarazioni così vaghe ed affrettate, i nostri politici non-statisti si siano già tirati addosso un sacco di guai, visto che qualcuno potrebbe davvero prenderli in parola. Per fortuna, il Consiglio di Sicurezza – forse è proprio su questo che contano – non voterà mai una risoluzione del genere.

Fare i furbetti, con relativi giochi di prestigio, può pagare in Italia, ma non sulla scena internazionale. Vogliamo davvero combattere l’Isis? Allora, non ci sono vie di mezzo. “Alla guerra come alla guerra”, con migliaia di uomini sul terreno. Vogliamo davvero questo, o solamente annunciare disponibilità?

Calma e gesso, cerchiamo di non armare nessuno (incautamente, lo avevamo già fatto) e continuiamo ad offrire quel contributo che, al momento, è forse il più prezioso: la conoscenza del territorio, dell’ambiente e delle persone che non compaiono, ma che contano ancora. Il tempo dei nostri “scarponi sul terreno” non è ancora arrivato. Ma può darsi che arrivi.

Dopo tanto pessimismo, concludiamo con almeno una nota rassicurante: nonostante i clamori ed i timori, la gittata dei missili al momento (forse) disponibili – i Frog e gli Scud-B – non arriva nemmeno in Sicilia.

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