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La Libia, l’Egitto e noi

Dalla mattinata di lunedì all’alba, l’aviazione egiziana ha lanciato tre ondate di raid aerei in Libia, che hanno colpito postazioni, campi di addestramento e depositi armi dello Stato Islamico, tra Derna (roccaforte libica del gruppo di Baghdadi), Sirte e Bengasi.

I target non sono ancora noti con esattezza: si dice che siano rimasti uccisi una quarantina di combattenti dell’IS, e tra loro ci sarebbero pure tre leader ─ uno di questi, stante alle notizie diffuse, è Bashar al Drissi, capo dello Stato Islamico a Derna, che era considerato morto a dicembre (tanto per capirci sull’affidabilità di quello che sta circolando; oppure per dire della conoscenza che abbiamo del mondo “IS/Libia”).

Quella egiziana è una reazione attesa, che segue la pubblicazione di un video in cui i boia del Califfato venivano ripresi mentre uccidevano 21 prigionieri copti egiziani. Ed è una reazione attesa anche perché già in passato erano partiti dei caccia dall’Egitto per colpire alcune delle milizie islamiste che stanno combattendo sul suolo libico, missioni in appoggio all’operazione “Dignità” guidata dal generale Khalifa Haftar. Era il 2014: il Califfato cominciava già ad organizzarsi in Libia, ma ancora non era una realtà di esternata al mondo. Ai tempi, insieme all’Egitto si mossero pure gli Emirati Arabi, che avevano dato per primi apertura di credito al neo presidente egiziano Fattah al Sisi, come riferimento per la lotta al terrorismo islamico.

Passati i mesi, e arrivati ad oggi, il generale che governa l’Egitto, è diventato un referente globale contro gli islamisti e le derive jihadiste ─ e poco importa se la persecuzione politica avviata contro la Fratellanza Musulmana secondo molti è un altro segno di deriva antidemocratica (un altro perché Sisi il potere non l’ha proprio conquistato, ma se l’è preso). Dalla Russia alla Cina, dall’Europa agli Stati Uniti, tutti adesso scommettono su di lui per sistemare le cose nel mondo arabo. Fiducia sovrastimata, visto che a conti fatti, il Cairo già fatica terribilmente a combattere in quella sua landa desolata che è ormai il Sinai, dove il gruppo combattente al Maqdis ha fatto da poco il giuramento di sottomissione a Khalifa Ibrahim istituendo la provincia locale dello Stato Islamico. Nonostante la creazione di un comando unificato nel Sinai, la struttura datata dell’esercito egiziano, è secondo molti analisti inadeguata per combattere la guerriglia islamista (ma almeno prova a picchiare duro, questo va detto).

Resta comunque che Sisi (sopravvalutazione a parte), è un fenomeno anomalo, in grado di intrattenere rapporti amichevoli con tutti, anche con Paesi in aperta diatriba. È riuscito a far sbloccare l’invio di una spedizione di elicotteri Apache dagli Stati Uniti, congelata dopo che il paese era finito nel caos. Allo stesso tempo la settimana scorsa ha ufficializzato la commessa da tre miliardi e mezzo con la Russia di cui si parla da un paio di mesi, e sempre da Mosca, ha ottenuto l’aiuto per costruire il primo reattore nucleare egiziano a Debaa (ne seguiranno altri, forse), tutto annunciato alla presenza di Putin, in visita ufficiale al Cairo. Una commessa ancora più grande, la chiuderà con la Francia, da cui acquisterà dei caccia Rafale per oltre cinque miliardi di dollari ─ Francia che è ai ferri corti con la Russia, per la storia delle due navi da guerra classe Mistral che Parigi doveva vendere a Mosca, ma che al momento della consegna sono state bloccate dalle sanzioni europee (anche se prima erano state escluse). E nonostante le gaffe uscite dalla pubblicazione di alcune sue conversazioni telefoniche, Sisi riesce ancora a spremere sauditi, kuwaitiani e emiri del Golfo, che continuano a finanziare il Paese.

Sisi è il baluardo, o almeno sembra che lo sia. In questo momento, se si dovesse decidere di intervenire in Libia, lui sarebbe un ovvio interlocutore non solo per ragioni geografiche, dunque. In realtà la Comunità internazionale guarda al presidente egiziano esperto di guerra, con un certo pragmatismo: “se qualcuno deve proprio andare, che vada lui, se ne ha voglia”. E, in fondo, “meglio lui che Baghdadi”. E tributa al Cairo, per questo, la giusta apertura, di credito e credibilità ─ quanto meno apparentemente.

***

Sarebbero diversi mesi (tre?), secondo quello raccontato da fonti interne, che il governo italiano sta discutendo della possibilità di richiedere all’Onu il via libera per l’invio di forze di peacekeeping in Libia. (Scelta azzardata, che non rappresenterebbe un reale deterrente per l’avanzata delle forze dello Stato Islamico, e, anzi, significherebbe creare attorno ai nostri soldati un effetto calamità: i militari italiani raccoglierebbero le rappresaglie dei vari gruppi islamisti ─ anche non affiliati all’IS. Ma qui entriamo nel territorio delle opinioni, che è bene abbandonare).

Daniele Raineri del Foglio, ha scritto venerdì scorso: «Lo Stato islamico sta sfidando i tre poteri forti che si contendono la regione: il fronte islamista che governa da Tripoli, il fronte laico che sta a Tobruk (e che è in guerra con il fronte islamista) e il governo egiziano che tiene d’occhio la situazione nel paese confinante mentre parteggia apertamente per Tobruk».

Dopo un po’ di tempo trascorso strategicamente nell’ombra del caos libico, lo Stato Islamico ha cominciato a muoversi, e quello che è successo negli ultimi due o tre mesi, segna un’escalation preoccupante, perché al disastro interno di uno stato diviso in due governi e due parlamenti con milizie proprie che si fanno la guerra, s’aggiunge il gruppo di Baghdadi ─ che adesso è il threat numero uno globale.

Il problema è la capacità, già dimostrata, dello Stato Islamico di manipolare la realtà. Esplodere e diffondere le notizie sulle conquiste libiche, ha un valore simbolico e mediatico ─ infatti, la presa di Sirte, è stata annunciata dalle frequenze di una radio locale, che ha cominciato a diffondere i pensieri di Baghdadi e del suo portavoce. L’attenzione internazionale si sta concentrando tutta sul Paese nordafricano, e il rischio è che rubi la scena al reale fulcro del problema: la Siria e l’Iraq, la casa del Califfato.

(Un intervento diretto, potrebbe allora significare cadere nella trappola del Califfo: in Libia, l’unica soluzione sembrerebbe essere quella di appoggiare il “meno peggio”, possibilmente senza insabbiare gli stivali e sfruttando la logistica favorevole ─ vedi le basi Nato nel Mediterraneo ─ per colpire. Ma pure in questo caso, si entra nella sfera delle opinioni).

@danemblog

 

 

 

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