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Michele Ferrero e la Sme, quella vicenda per nulla dolce

La buonanima, ormai, di Michele Ferrero si merita davvero tutti gli elogi levatisi all’annuncio della sua morte, a cominciare da quelli del nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Egli fu un autentico campione dell’imprenditoria italiana, e non solo di quella cosiddetta familiare, in un impasto eccezionale di semplicità, astuzia, coraggio, costanza, umanità e generosità. Un impasto che seppe veramente addolcire la vita a tutti quelli che ebbero la fortuna di lavorare con lui, o di goderne i prodotti giustamente noti e venduti a tutte le “Valerie” sparse nel mondo, come Ferrero soleva chiamare le sue clienti.

Eppure c’è qualcosa che stona, o non convince, nell’orgoglio nazionale trasudato da tanti elogi se rapportato alle condizioni che obbligarono il povero Ferrero a separare ad un certo punto, nel pieno delle forze, la sua italianità dalla scelta delle proprie residenze, all’estero. E’ un paese davvero curioso quello che riesce ad allontanare un figlio così prezioso e generoso.

Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera ha ricordato che negli anni Settanta l’inventore della Nutella e di tante atre delizie, “spaventato dal fisco e dai sequestri di persona, portò la famiglia prima a Bruxelles, dove fu processato e alla fine assolto per esportazione di capitali, poi a Montecarlo”. Dove è morto all’età di quasi novant’anni. “Spaventato” già allora da un fisco che sapeva fare concorrenza ai sequestri di persona: una concorrenza vinta alla grande, visti i livelli attuali dell’uno e degli altri.

Ma al povero Ferrero toccò di sperimentare sulla propria pelle qualcosa di ancora più pericoloso e odioso del fisco e dei rischi di sequestro di persona. Sperimentò la gogna, o qualcosa di assai simile, che può colpire anche un imprenditore onesto e coraggioso se, coerente con la sua natura, decide di mettersi di traverso rispetto ai poteri forti del momento. Poteri non necessariamente o esclusivamente politici, ma anche o solo di consorteria finanziaria provvista di coperture politiche.

Egli ebbe, in particolare, la disavventura, viste le noie che gliene derivarono, di condividere nel 1985 con gli amici Silvio Berlusconi e Pietro Barilla il tentativo dell’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi di fermare in extremis un’operazione di sostanziale svendita del comparto alimentare dell’Iri – la Sme – a Carlo De Benedetti, a meno di 500 miliardi di lire. Un’operazione concordata con tanto di compromesso fra lo stesso De Benedetti e l’allora presidente dell’Iri Romano Prodi e bloccata dal governo guidato dal leader socialista grazie anche alla più vantaggiosa offerta, di circa 600 miliardi di lire, presentata dalla cordata di Ferrero, Berlusconi e Barilla. Che non si aggiudicarono tuttavia l’affare, avendo il governo colto l’occasione solo per bloccare la vendita, lasciare la Sme nella disponibilità pubblica, riorganizzarne e potenziarne le componenti e vendere tutto dopo otto anni, e non a De Benedetti, al prezzo complessivo di  più di duemila miliardi di lire. Sono cifre che parlano da sole.

Da benemeriti dell’interesse nazionale, il povero Ferrero, Berlusconi e Barilla si trovarono dalla mattina alla sera declassati a marionette manovrate dal solito Craxi per un’operazione di contrasto politico all’opposizione costituita allora da De Benedetti e dai suoi giornali: una strana opposizione però, perché sostenuta, fra gli altri, dal segretario in carica del maggiore partito di governo. Che era il democristiano Ciriaco De Mita, punto di riferimento politico e personale di Prodi alla presidenza dell’Iri. Una vicenda tutta italiana. E per niente dolce come i prodotti di Ferrero. Tra i cui meriti civili e imprenditoriali sarebbe pertanto giusto ricordare, a costo di disturbarne alcuni superstiti, anche il contributo dato a quell’operazione industriale e politica del 1985.

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