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Perché Draghi gongola

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Che la festa cominci. Ma sarà davvero una festa e quanto durerà? La Bce lascia invariati i tassi (0,05%) e lunedì parte con l’acquisto massiccio di titoli: 60 miliardi al mese almeno fino a settembre 2016 e anche dopo, finché l’inflazione non sarà tornata vicino al 2%, l’obiettivo che la banca centrale europea si è data. Stando alle sue stesse previsioni, nel 2017 i prezzi cresceranno dell’1,8%. Dunque è quello il termine previsto per il Quantitative easing all’europea.

L’ammontare sarà superiore a mille 140 miliardi di euro e i titoli di Stato dovranno avere un rating almeno di un punto superiore al livello spazzatura (ma basta la valutazione di una sola agenzia di rating). Ne avremo per due anni, durante i quali l’economia crescerà dall’1,5% medio previsto nel 2015 all’1,9% nel 2016, fino a toccare il 2,1%, avvicinandosi così alla soglia oltre la quale i posti di lavoro creati dovrebbero superare quelli distrutti. Tutto questo, naturalmente, se nulla cambia e se le previsioni sono azzeccate. Finora non è successo.

Draghi parlando da Nicosia ha ammesso che i prezzi sono sfuggiti alle proiezione statistiche della Bce. L’ufficio studi aveva previsto che quest’anno sarebbero cresciuti, sia pur di poco (0,7%), invece adesso sostiene che saranno piatti, zero spaccato. Colpa del fatto che il petrolio greggio continua a svalutarsi, ma anche perché il nocciolo duro dell’inflazione è schiacciato da una domanda interna che ancora langue. Il credito alle famiglie e alle imprese è cominciato dopo la nuova ondata di liquidità riversata a dicembre con il secondo ciclo di Tltro, tuttavia resta molto fiacco.

Insomma, del doman non c’è certezza. Eppure, la politica monetaria espansiva ha cominciato a dare alcuni frutti. Il più importante è il crollo dell’euro ormai vicino alla parità con il dollaro. Nel 2000 l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, uno dei campioni dell’unione monetaria, aveva proposto che la Bce mantenesse il cambio attorno alla parità con il dollaro. E’ prevalsa la linea del bening neglect che ha svalutato l’euro nei primi due anni e poi lo ha fatto arrivare a vette improbabili, rivalutandolo fino al 50%. Finalmente si è tornati a livelli più ragionevoli, soprattutto perché la banca centrale ha cambiato passo, s’è fatta interventista e ha cominciato a considerare il cambio tra le variabili fondamentali della politica economica. I primi effetti positivi già sono evidenti sull’industria esportatrice e, di conseguenza, sulla crescita.

Draghi si è mostrato soddisfatto e aveva l’aria di chi passa all’incasso nei confronti dei suoi critici interni ed esterni. I resoconti delle riunioni del consiglio direttivo mostrano nero su bianco che anche la Bundesbank si è arresa all’evidenza e il presidente Jens Weidmann ha dato via libera: la sua obiezione riguardava i tempi, non il Qe in sé e per sé, a differenza da quel che molta stampa (e non solo tedesca) ci aveva raccontato. La ulteriore caduta dei prezzi ha fatto cadere ogni ulteriore resistenza.

Ironico è apparso Draghi nei confronti di tutti quei professoroni i quali sostengono che il Qe non funziona nell’Europa bancocentrica perché non ci sono abbastanza titoli sul mercato. “Ma come – ha ribattuto Draghi – prima si diceva che in Europa c’è troppo debito e adesso che non ci sono abbastanza titoli in circolazione?”. Non fa senso, essendo i titoli il corrispettivo del debito, pubblico e privato. Non solo: essi sono in pancia alle banche e in Paesi come l’Italia spiazzano i prestiti. Dunque, con i suoi acquisti la Bce dovrebbe togliere il tappo al credito.

Duro, quasi sprezzante, il presidente della Bce si è mostrato nei confronti di quei giornalisti, greci e ciprioti soprattutto, che gli rimproveravano di non fare abbastanza per aiutare la Grecia. “Gli abbiamo prestato 100 miliardi di euro”, ha ribattuto, “il nostro aiuto è raddoppiato, siamo ormai la banca centrale greca”. Ora basta, il Qe non comprerà titoli greci. Le regole vanno rispettate ad Atene come altrove (una battuta contro l’accondiscendenza della Ue verso la Francia?).

Draghi ha posto un limite di fatto anche all’acquisto di Bund tedeschi, perché la Bce non comprerà titoli con rendimenti inferiori a -0,2, cioè il tasso che essa applica ai depositi bancari. E non ha perso occasione per rilanciare la sua dottrina delle tre gambe: la politica monetaria, la politica fiscale (quindi bilanci pubblici in ordine) e le riforme strutturali. Il ritorno alla crescita grazie anche al Qe “non è un motivo per essere compiacenti” con chi evita di aumentare la competitività del sistema. E’ evidente che ce l’ha con Syriza, ma anche l’Italia resta sotto sorveglianza.

La Bce a Nicosia si è presentata come l’unica istituzione europea che opera come un soggetto unitario (al di là delle diverse scuole di pensiero o degli interessi nazionali spesso divergenti), che ha una strategia e nello stesso tempo l’intelligenza e la forza per portarla avanti. In tre anni ha compiuto un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, spinta da una crisi che ha messo in discussione l’euro, ma soprattutto da Draghi, uomo pragmatico e determinato, che ha fatto di necessità virtù guidando con pugno di ferro e guanto di velluto l’intera economia della zona euro (e non solo). Il fatto che sia la sola a funzionare così, fa risaltare forza della Bce e nello stesso tempo è la sua debolezza. Spiega in parte anche gli errori, come la lenta risposta alla deflazione a lungo persino negata. E mette all’ordine del giorno la necessità che non rimanga più nel suo “splendido isolamento”. E’ questo, in fondo, l’appello rivolto da Draghi anche ieri chiudendo il suo discorso introduttivo.

Avrà risposta dai leader politici ai quali era indirizzato? Ne dubitiamo. Dunque, la parola spetta ai mercati. Le prime reazioni sono positive: l’euro è sceso, le borse sono salite, lo spread è tornato ai livelli pre crisi. I governi tirano un sospiro di sollievo, anche quelli per i quali è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia. E poi non ci si lamenti che la finanza globale ha espropriato la sovranità nazionale. L’economia e la politica non consentono vuoti.

Stefano Cingolani

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