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Perché non basta Draghi per la ripresa

Che ci sia ciascun o dice, dove sia nessun lo sa: anche la ripresa economica, come la fede degli amanti secondo Metastasio, è un’araba fenice?

Il linguaggio della statistica è scabro e violento. Scrive l’Istat: “A gennaio 2015 l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisce, rispetto a dicembre 2014, dello 0,7%. Nella media del trimestre novembre-gennaio l’indice aumenta dello 0,1% rispetto al trimestre immediatamente precedente. Corretto per gli effetti di calendario, a gennaio l’indice diminuisce in termini tendenziali del 2,2% (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 21 di gennaio 2014)”.

E’ la fotografia del passato, mentre il futuro potrebbe essere radioso. Ci scommette Mario Draghi che dichiara vittoria dopo solo tre giorni di allentamento quantitativo. Ci punta Pier Carlo Padoan, mentre la Confindustria vede addirittura il sol dell’avvenire con il prodotto lordo che viaggia al ritmo del 2%. Secondo il centro studi, a febbraio la produzione industriale sarebbe aumentata dello 0,4% “con un rimbalzo superiore alla luce delle indicazioni del Pmi manifatturiero in crescita anche nella componente interna”, ci informa il Sole 24 Ore.

Sarà così, e tutti se lo augurano, persino i gufi anti-renziani perché anche loro debbono campare. Tuttavia il contrasto tra le statistiche ufficiali e le proiezioni continua ad essere  impressionante. Vuoi vedere che gli indici non corrispondono più alle trasformazioni indotte dalla crisi? Per l’industria può essere vero. Come si spiega che i distretti mostrano un’accelerazione notevole in tutti i comparti, gli stessi (come ad esempio il tessile, pelli e accessori) che mostrano invece un impressionante calo a livello aggregato (-5,7% a gennaio)?

Nell’automobile e nell’elettronica non c’è gap tra quel che appare e quel che viene registrato dalla statistica. Tuttavia l’interrogativo resta. La manifattura italiana si è spostata sulle nicchie d’eccellenza, produce meno, ma sforna manufatti più ricchi e sofisticati, quindi il termometro giusto è quello che registra il valore aggiunto non le quantità.

Un’altra spiegazione possibile ha a che fare con lo spazio e con il tempo. La ripartenza esiste, però è troppo presto per vederla nelle statistiche e comunque avviene a macchia di leopardo, riguarda soprattutto il nord. Ciò viene rispecchiato dall’andamento dell’occupazione che segue quella del prodotto. Nonostante il gran parlare di ripresa senza lavoro, è ancora così: negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è calato al 5,5%, lo stesso è avvenuto in Germania, se non accade nel resto d’Europa è perché la macchina economica è ancora ferma.

Lo mostra in modo evidente un grafico pubblicato da ThomsonReuters (in basso). Fatta cento la produzione industriale del 2000, gli Usa sono a 118, la Germania è a 122. La Francia a quota 90, la Gran Bretagna a 95, Italia e Spagna tra 78 e 79, la Grecia ha appena superato 70. Ovunque si comincia a vedere un rimbalzino, ma un solco impressionante si è formato a partire dal 2009, perché prima le economie occidentali si muovevano nella stessa direzione. Gli Stati Uniti dopo il grande tonfo si sono ripresi grazie agli stimoli monetari e fiscali, la Germania grazie alle esportazioni. Tutti gli altri sono ancora immersi in acque profonde. Per americani e tedeschi la ripresa significa incrementare il reddito pro capite, noi al massimo possiamo recuperare parte delle perdite, sapendo che il tenore di vita è destinato a restare inferiore a quello che avevamo prima della Lunga Recessione.

grafico industrial

Basterà lo stimolo della Bce? E’ benvenuto, sia chiaro, ma il divario aumenta se l’acquisto di titoli pubblici e privati non si concentra sui Paesi in difficoltà. Eppure proprio questo è esplicitamente vietato dalla Bundesbank. Vediamo come andranno le cose, perché molto spesso il realismo del mercato ha il sopravvento sull’astrattezza delle regole. E’ chiaro, però, che il Qe non è sufficiente, e Draghi non smette di ripeterlo. Ci vogliono gli investimenti, le finanze pubbliche in ordine e le riforme per aumentare la produttività e la competitività dei prodotti e dei sistemi economici; tuttavia il vantaggio appare troppo grande per essere colmato.

Gli anti euro insistono nel sostenere che la moneta unica ha limitato la nostra libertà di manovra. E allora perché gli inglesi non hanno usato la cosiddetta svalutazione competitiva? Non sarà perché nelle condizioni attuali del mercato mondiale una svalutazione aggressiva non aumenta la competitività, se non in modo marginale? Davvero i cinesi acquistano auto britanniche e non più tedesche se la sterlina ha un valore inferiore all’euro? Magari comprerebbero servizi finanziari, perché è lì che Londra oggi è insuperabile. L’Italia, secondo paese manifatturiero d’Europa, è più sensibile al cambio, ma anche per l’industria italiana nel lungo periodo conta soprattutto la posizione che riesce a occupare nella nuova divisione internazionale del lavoro. I mutamenti strutturali avvenuti in questi anni costringono a rivedere molti paradigmi, e ciò vale per ogni scuola di pensiero.

In conclusione, solo le ricette degli Stati Uniti e della Germania sono risultate vincenti. Ricette diverse. L’Eurolandia viene spinta a seguire la strada tedesca (un aumento della produttività guidato dallo Stato e dalle banche) con la motivazione che il modello americano richiede riforme ancor più profonde con un impatto sociale che forse sarebbe insostenibile nel breve periodo. Sergio Marchionne sostiene che non è così. Certo, la svolta alla Fiat non può essere applicata all’intero sistema Italia. Tuttavia, val la pena discuterne. Perché una terza via non è all’ordine del giorno.

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