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Gli Usa svegliano Prodi dal sonno russo

Le accuse, si sa, fanno notizia. Molto meno le rettifiche. Anche per questo ha avuto poca diffusione la breve replica che l’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia ha inviato ieri al Corriere della Sera, per rispondere ad alcuni passaggi di un’intervista al presidente Romano Prodi.

In una conversazione con Paolo Valentino, l’ex premier – sulla scorta anche di quanto emerso dalla missione di Matteo Renzi a Mosca, come rimarcato da diversi giornali italiani – aveva lasciato intendere che gli Usa, contrariamente all’Europa, abbiano addirittura aumentato le loro esportazioni verso la Russia dopo l’entrata in vigore delle sanzioni.

Washington ha invitato sia il Corriere sia Prodi a dare un’occhiata agli ultimi dati, che suggerirebbero il contrario: gli Usa, al pari dei propri alleati nel Vecchio Continente, non sorride per le restrizioni economiche a Mosca, anzi.

Le più recenti statistiche diffuse lo scorso 5 febbraio dallo U.S. Census Bureau, spiega Villa Taverna, indicano con chiarezza che gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Russia sono diminuiti del 9,9% rispetto all’anno precedente. E che nello stesso anno le esportazioni degli Usa verso Mosca sono diminuite del 3,3% rispetto al 2013.

A questi rilevi dell’Ambasciata americana, il giornalista del Corriere ha risposto: “Abbiamo sentito il presidente Prodi, il quale ci ha rimandato ai dati del Global Trade Atlas, società svizzera indipendente che raccoglie i dati ufficiali dei diversi uffici statistici e ne armonizza le metodologie. Secondo questo istituto, da gennaio a novembre 2014, ultimo mese di cui si dispone di dati comparabili, le esportazioni Usa verso la Russia sono aumentate dello 0,7%, quelle dei sei maggiori Paesi europei esportatori sono diminuite del 13,6%. Alla luce di questi dati, l’affermazione di Prodi, che le esportazioni Usa verso la Russia dopo l’entrata in vigore delle sanzioni sono aumentate e che l’economia americana non ha subito alcun danno, è corretta”.

Certo, anche l’Europa soffre per le sanzioni, questo è fuor di dubbio. A differenza di Washington, però, è colpita anche da un altro pericoloso “deficit”: l’allarme per le vicende ucraine – che potrebbero presto sfociare in una guerra ai confini di Bruxelles – ancora non suona nelle opinioni pubbliche tanto forte quanto meriterebbe. E forse, nemmeno, nelle parole di qualche ex presidente del Consiglio.

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