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Grillo, Renzi e Landini. Benvenuti nella politica-spettacolo

Quando nel 1967 pubblica “La società dello spettacolo”, Guy Debord era un giovane artista, cofondatore di una delle numerose avanguardie letterarie fiorite nel Novecento, il Situazionismo.

I situazionisti, che si richiamavano al verbo del surrealismo, concepivano l’intervento politico come costruzione appunto di “situazioni”, ovvero di momenti di vita collettiva volti alla realizzazione, attraverso l’uso creativo di tutte le forme di espressione artistica, di una autentica e spontanea comunicazione tra le persone.

Per molti Cassandra del nostro tempo, profeta della società consumistica e postmoderna, Debord è stato un pensatore tra i più saccheggiati dalla sociologia del dopoguerra, quasi sempre senza un cenno di riconoscenza. Ma cosa era per lui la società dello spettacolo?

Debord non la identifica solo con i mezzi di comunicazione di massa: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”. In altre parole, è una sorta di velo che nasconde la realtà, che la altera in una rappresentazione, che la falsifica irrimediabilmente. Ne deriva che tutta la vita delle “società nelle quali predominano le condizioni moderne della produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli” (affermazione che allude al famoso incipit de “Il Capitale” di Marx).

A quasi cinquant’anni di distanza, le sue tesi appaiono per larghi aspetti discutibili, estreme in alcuni punti e troppo semplicistiche in altri. Del resto, il Sessantotto parigino era alle porte, e il “grande rifiuto” della società tecnologica teorizzato dalla Scuola di Francoforte e da Herbert Marcuse mieteva proseliti in tutta Europa. Ciononostante, la sua proposta di lettura ha profeticamente anticipato quel processo di spettacolarizzazione della politica che oggi è sotto gli occhi di tutti.

Come il calcio si spettacolarizza spostandosi dagli stadi ai salotti televisivi, così la politica si spettacolarizza spostandosi dalle sedi istituzionali e di partito ai talk-show. Il leader politico si trasforma in un’icona pubblicitaria, e per prevalere nella competizione elettorale non deve produrre argomentazioni razionali a sostegno del proprio programma, quanto proiettare davanti a un pubblico di cittadini-consumatori un’immagine gradevole, rassicurante e accattivante.

Si celebra in questo modo il trionfo di quel “vuoto delle apparenze”, che ormai si è incuneato nel cuore stesso delle procedure democratico costituzionali. Come è noto, a fungere da battistrada a questa mutazione in senso pubblicitario della politica è stato Silvio Berlusconi. Il Cavaliere l’ha suggellata già col “nome-slogan” (Forza Italia) del movimento da lui creato. Poi è stato scalzato da Beppe Grillo e Matteo Renzi. Adesso un altro Matteo (Salvini) prova a scalzare Grillo (i cui voti gli fanno gola) e un nuovo astro nascente del piccolo schermo (Maurizio Landini) è pronto a farlo con Renzi.

Cambiano i suonatori, ma la musica è la stessa. Di destra o di sinistra, sono sempre sette note di populismo un po’ stonato.

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