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Israele, tutte le incognite dopo la vittoria di Netanyahu

L’isteria nazionalista e l’istigazione alla paura hanno avuto la meglio nelle elezioni israeliane: paura della minaccia esterna dell’Iran e dell’estremismo islamista che disgrega e insanguina il Medio Oriente; e paura del “nemico interno” – i cittadini arabi.

COALIZIONE DI CENTRODESTRA

La vittoria del Likud (30 seggi, un quarto del Parlamento israeliano) consente al premier uscente Benjamin Netanyahu di formare un governo con le due formazioni della destra annessionista, con il nuovo partito Kulanu – fuoruscito dal Likud e attento soprattutto ai temi della povertà e delle disuguaglianze economico-sociali di cui soffrono strati vasti della società israeliana – e infine con uno o due dei partiti religiosi.

Sarebbe una coalizione simile a quella che governò Israele fra il 2009 e il 2013, senza più il contrappeso importante dei partiti centristi di Yair Lapid e della Tzipi Livni, soprattutto della seconda, che, come negoziatrice con l’Autorità palestinese e ministro della Giustizia, ha cercato in questi due anni di condurre in porto – o almeno di salvare – la trattativa di pace e di bloccare la legislazione sullo “stato-nazione”, mirante a subordinare le norme della democrazia all’ebraicità dello stato e ad attribuire alla legge ebraica uno status privilegiato.

Anche per questo sul finire del 2014 Netanyahu aveva estromesso i due partiti dal governo e portato il paese alle elezioni anticipate in un modo che sembrava avventuristico.

Il voto è stato dominato dalla persona del premier uscente ed è quasi stato un plebiscito sul suo conto. Netanyahu ha vinto, con la sua abilità tattica, nonostante sondaggi che sembravano testimoniare un umore diffuso nel paese di rigetto d’un uomo che da troppo tempo domina l’agone politico e che nell’ultimo mese aveva inasprito in modo distruttivo i rapporti con l’amministrazione americana e acuito il pericoloso isolamento di Israele nel mondo.

Un isolamento dovuto anche a un’ostinata difesa dello status quo – l’occupazione della Cisgiordania -, sotto la pressione dei partiti di destra e del movimento dei coloni, ormai 350mila, lì insediatisi.

Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Netanyahu ha affermato di respingere la soluzione “ a due Stati”, che presuppone la nascita di uno stato palestinese sovrano e in rapporti di buon vicinato con Israele, lungo confini vicini a quelli del ’67 e con modifiche territoriali concordate fra le parti e con Gerusalemme, città fisicamente unita, capitale dei due Stati.

Lo ha fatto contro i suoi stessi impegni pubblici di sei anni fa e la logica del negoziato con i palestinesi. Ha attaccato in modo virulento gli elettori arabi e la Lista araba unita, la nuova formazione che ha unito i quattro piccoli partiti arabi di Israele (Hadash, comunista, è in realtà un partito arabo-ebraico).

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu).

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