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Che cosa insegna la strage jihadista a Tunisi

All’improvviso, in Tunisia. Un Paese dove un governo di unità nazionale che cerca di far coesistere le realtà laiche con quelle islamiste ha intrapreso un coraggioso percorso di ricostruzione istituzionale e si trova oggi ad affrontare le sue peggiori paure: una minaccia terroristica molto più concreta di quello che la tranquillità elettorale poteva far immaginare. Infatti, l’attacco di Tunisi ha dimostrato quanto il terrorismo di stampo jihadista sia ormai un fenomeno multiforme che trova nelle pieghe dell’instabilità regionale il terreno adatto per svilupparsi.

Certo, la Tunisia non è mai stato un Paese libero dalla minaccia jihadista. Infatti, prima che le cronache internazionali si riempissero della crescita dello Stato Islamico e dei suoi tentacoli, era il fenomeno di Ansar al-Sharia a minacciare maggiormente la sicurezza della regione nord africana, arrivando addirittura ad amministrare direttamente alcune aree rurali tunisine, lontane dal cosmopolitismo secolarista della costa, grazie alla fornitura ai cittadini di servizi e welfare.

Quest’ultimo è il punto principale. Forse il percorso istituzionale intrapreso è servito a fare della Tunisia un esempio ed una speranza per tutta la regione, ma ha di fatto spostato l’attenzione dallo sviluppo economico, che, fatta eccezione per la capitale e ristrette zone costiere, è lungi dall’essere promosso. Infatti le attuali condizioni socio-economiche della stragrande maggioranza della popolazione tunisina rimangono molto difficili, non troppo dissimili da quelle che portarono il giovane Mohamed Bouazizi a compiere l’estremo gesto di darsi fuoco in piazza, evento che diede vita alla cosiddetta “Primavera Araba”.

Il dramma di una società impoverita, talvolta disorientata e disillusa non ha fatto altro che lasciare ampi spazi alla radicalizzazione di un numero sempre maggiore di giovani: basti pensare che il più consistente gruppo di combattenti stranieri dello Stato Islamico in Siria e in Iraq è di origine tunisina. Sono circa 5mila i giovani che hanno lasciato il proprio Paese alla ricerca di un riscatto, di una dignità e di un senso alla propria esistenza che la macchina propagandistica di al-Baghdadi, purtroppo, ha saputo catturare e manipolare.

Se a questa ben radicata presenza salafita e jihadista endemica nel Paese si aggiunge l’enorme spinta destabilizzante proveniente dalla vicina Libia, allora ecco apparire la stessa Tunisia non più come quel paradiso dove è possibile un compromesso istituzionale tra forze laiche e islamiste, ma come un Paese complesso, diviso tra la straordinaria spinta sociale riformatrice della popolazione delle aree costiere più sviluppate e un entroterra chiuso dalla povertà e schiacciato dalla morsa letale del jihadismo.

La battaglia per la stabilità e il futuro del Paese potrebbe essere lunga, sanguinosa e coinvolgere non solo attori statali e non statali del Maghreb, ma anche l’Europa. Infatti, Ansar al-Sharia e le realtà terroristiche tunisine rappresentano una declinazione nazionale di un fenomeno regionale fortemente interconnesso, il cui fine ultimo è l’instaurazione di regimi retti da un’interpretazione draconiana, letterale e oscurantista della Legge Islamica. La realizzazione di un simile progetto passa necessariamente per la guerra aperta a chi difende una visione del mondo radicalmente all’opposto, basata sulla democrazia, sul rispetto della diversità e sulla tolleranza. Per questa ragione il popolo e il governo tunisini non vanno lasciati soli, ma coinvolti in un ampio progetto di cooperazione politica e di sicurezza che elimini la minaccia terroristica non solo nella sua manifestazione ultima, ma alle sue stesse radici sociali di emarginazione e sottosviluppo.

Inoltre, i fatti di Tunisi stanno a dimostrare (semmai ce ne fosse stato bisogno) quanto il fenomeno jihadista abbia interconnesso tra loro vari ambiti regionali e come riesca a sfruttare gli spazi di azione lasciati liberi dall’anarchia in alcuni contesti statuali. Lo è stato la Siria, prima, lo sta diventando, drammaticamente, la Libia ora.

È proprio questo il rischio da scongiurare. Un contesto nordafricano reso già instabile dalla presenza di innumerevoli gruppi salafiti può essere definitivamente incrinato da un’ulteriore evoluzione della crisi libica. Inevitabilmente, dunque, anche questa lettura dimostra quanto una soluzione per la stabilizzazione della Libia passi da un approccio che è prima locale (vedasi l’inclusione nel dialogo di pace del contesto sociale-tribale del Paese), ma che deve diventare inevitabilmente regionale, con la partecipazione non solo dei vicini libici, ma anche di altri protagonisti dell’area mediorientale che stanno giocando una propria partita nel contesto libico. Tutto questo in ambito dove l’Unione europea può dare il supporto necessario alle Nazioni Unite per avere quella spinta politica che finora ha latitato e dove l’Italia può finalmente svolgere quel ruolo di traino negoziale che il nostro Paese ha per postura politica e diplomatica nel bacino del Mediterraneo.

Gabriele Iacovino è coordinatore degli analisti del Centro Studi Internazionali (CeSi) presieduto da Andrea Margelletti

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