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Libia, così l’America incalza l’Italia

Nessuna tregua a Tripoli, dove la battaglia per la conquista della capitale libica continua senza sosta. La città, in mano alle forze di Alba libica e al governo rivale di quello di Tobruk, è assediata ormai da ore dalle truppe dell’esercito fedele al generale Khalifa Haftar. Si combatte a ovest della città, dove ieri durante i raid aerei condotti dai caccia di Haftar è morto Salah al Burki, un comandante delle milizie Fajr Libia, la coalizione filo-islamica al potere nella capitale.

I FATTI E I BOMBARDAMENTI

I bombardamenti hanno interessato anche l’aeroporto internazionale, il Mitiga, l’unico ancora funzionante. Dopo aver attaccato l’area di al Naqdiya, che conduce all’aeroporto, i caccia hanno colpito le postazioni di Fajr ad al Zawiya, al Ajilat e al Jamil. Un alto ufficiale vicino ad Haftar, Abdel Razzaq al Nathuri, ha garantito che le sue truppe «entreranno a Tripoli da diverse direttrici».

LA VISIONE DELL’AMBASCIATORE JOHN PHILLIPS

In un’intervista rilasciata al quotidiano torinese La Stampa, l’ambasciatore americano in Italia, John Phillips ha dichiarato che «In Libia non c’è una soluzione militare. Serve un accordo politico fra le parti, e stiamo facendo progressi con la mediazione dell’inviato dell’Onu Leon. Poi insieme ci potremo concentrare sulla minaccia terroristica, che non è ancora al livello di Iraq e Siria, ma può diventarla». La Libia – continua – «è un paese pieno di risorse di petrolio e gas con 6 milioni di abitanti: ci sono molte ragioni per accordarsi».  E sul tema di una potenziale missione internazionale di stabilizzazione guidata dall’Italia l’ambasciatore spiega: «Sì, lo abbiamo sempre detto. Il premier Renzi ha dichiarato di essere disposto a fornire 6.000 uomini, per una missione finalizzata non a combattere, ma a proteggere la pace. L’Italia conosce la Libia – continua Phillips –  ha interessi e leadership, e siamo favorevoli che presenti un piano a cui l’intera comunità internazionale possa contribuire per stabilizzare il paese».

LA DICHIARAZIONE CONGIUNTA

I governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti – si legge in una nota congiunta – hanno condannato “fermamente l’attacco su Aziziyah del 19-20 marzo, la prosecuzione degli attacchi aerei contro gli aeroporti di Zintan e Mitiga e contro Tripoli e ogni altro atto di violenza”. Gli stessi esecutivi sottolineano il “forte rammarico per il rifiuto delle parti in lotta di porre fine ai combattimenti, mettendo così in pericolo le vite dei civili e distruggendo le infrastrutture nazionali”. “Facciamo appello – si legge – a tutti i leader politici libici perché agiscano con senso di responsabilità, affermando chiaramente il proprio sostegno al dialogo, e perché esercitino la loro autorità sui capi militari e delle milizie al fine di assicurare la supervisione e il controllo delle autorità civili su quelle militari.

L’APPELLO DI MISURATA

«Siamo pronti ad accantonare le divisioni pur di fermare lo Stato Islamico. Ne abbiamo già discusso con i comandanti di Sdabia. Loro stanno con Tobruk, noi con Tripoli, ma siamo entrambi libici e siamo pronti ad allearci con loro per accerchiare quei terroristi venuti dall’estero». Così il comandante del Consiglio Militare di Misurata, Ibrahim bin-Rajub, in una intervista rilasciata a Il Giornale, commenta i fatti di Tripoli. «Lo Stato Islamico è una palla di neve, ma può diventare una valanga. Ora è a Derna e a Sirte, ma domani può travolgere Tripoli», spiega. Nello scenario della guerriglia sul campo che si sta consumando in queste ore, i capi di Misurata sembrano disposti a mettere in discussione i giochi perché insofferenti di fronte alle ambiguità dell’esecutivo islamista di Tripoli «sempre pronto a ridimensionare il pericolo dello Stato Islamico», scrive il quotidiano. Per questo, i capi della più potente città-stato della Libia, fanno appello all’Italia e all’Europa. Ibrahim bin-Rajub rivela a Il Giornale di aver già chiesto un mese fa, durante un incontro con l’ambasciata Ue di Tunisi, l’aiuto occidentale. Senza, però, riuscirci: «Ci hanno detto: niente aiuti senza un accordo tra Tobruk e Tripoli».

IL RUOLO DI EGITTO E ARABIA SAUDITA 

Ma la posta in gioco della battaglia che sta mettendo a ferro e fuoco Tripoli non è solo la riconquista della capitale al controllo del cosiddetto “governo di Tobruk”. Sul terreno libico si combatte anche una guerra per conto terzi: perché dietro le fazioni in lotta ci sono gli interessi e le mire di potenza regionale dell’Egitto e dell’Arabia Saudita. Il governo libico guidato dal premier Abdullah Al Thani, sarebbe infatti appoggiato dall’Egitto che nutre mire territoriali sulla Cirenaica, l’area più orientale del Paese nordafricano e maggiormente ricca di giacimenti petroliferi. Risorse che consentirebbero al governo del generale Abd al-Fattah al-Sisi di finanziare un intervento armato. Non solo, Il Cairo – come ha sottolineato di recente il generale Carlo Jean – vuole impedire che gli islamisti libici giungano alle proprie frontiere armati con gli enormi arsenali di Gheddafi, evitando così che vengano in contratto con la minaccia rappresentata per il premier dagli integralisti locali.

Non solo. Secondo Giorgio Cuscito, analista di Limes, il generale Khalifa Haftar sarebbe un personaggio dal passato poco trasparente. Oltre a godere dell’appoggio dell’Egitto, sarebbe supportato dalla Cia, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e da altre petromonarchie del Golfo. Scavando nella sua carriera militare, l’Huffington Post ne passa in rassegna gli avvenimenti della sua biografia: proveniente dai ranghi dell’accademia militare di Bengasi, si è formato nell’allora Unione sovietica e ha partecipato al colpo di Stato del 1969 che portò al potere Muammar Gheddafi. «Durante la guerra fra Libia e Ciad Haftar, viene fatto prigioniero dall’esercito di N’djamena e sconfessato dal Colonnello. Secondo Tripoli, il generale non faceva parte delle sue truppe. È a questo punto che entrano in campo gli Stati Uniti» scrive il quotidiano.

«Lo liberano con un’operazione dai contorni non chiari e gli concedono asilo politico. Negli Usa si unisce ai ranghi della diaspora libica, mentre sono in molti, a partire da Gheddafi, ad accusarlo di essere un agente della Cia» si legge. Dopo vent’anni di esilio, rientra a Bengasi nel marzo 2011, poco dopo lo scoppio della rivolta contro il Colonnello, e viene nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione, braccio politico della ribellione. Ai suoi ordini ci sono molti ufficiali del regime che hanno abbandonato Gheddafi. «Ma le autorità del “governo” di transizione – spiega l’Huffington Post – non hanno in lui completa fiducia. Lo considerano ambizioso, avido di potere e temono che punti alla leadership di una nuova dittatura militare».

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