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Yemen: “il modello” è proprio un fiasco, e ora nella mischia ci sono pure i sauditi

Se non si dovesse raggiungere un accordo tra le due fazioni in guerra in Libia ─ che secondo il delegato Onu Bernardino Leon è più vicino di quello che si crede ─, il governo italiano ha già studiato una strategia anti-crisi. Non si tratta di un piano risolutivo per le controversie interne, ma di una specie di operazione counterterrorism su ampia scala, mirata a combattere l’avanzata dello Stato islamico nel paese ─ gli ultimi report fatti diffondere dal dipartimento di Stato americano, cominciano a dare dati numericamente preoccupanti.

Il piano sarà basato su un programma tattico conosciuto, fatto di un mix di raid aerei contro target selezionati, osservati, certi, e blitz di forze speciali su obiettivi altrettanto definiti. Il “modello Yemen” (o anche Somalia): attaccare i terroristi a livello puntuale, facendo sponda sui governi amici locali ─ in Libia in realtà il governo locale non c’è più, o meglio ce ne sono due, che però significa lo stesso “disgregazione dell’autorità”, circostanza che in definitiva renderà più semplice la burocrazia delle missioni, una volta avuto il mandato internazionale.

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Barack Obama credeva finora che il modello yemenita di attaccare i terroristi e aiutare gli alleati, fosse una strategia di successo: ora lo Yemen rischia di avviarsi verso la guerra civile (non che segnali non ce ne fossero), con quel “governo alleato” relegato in un pizzo meridionale del Paese (a Aden), con una milizia confessionale sciita aiutata dagli iraniani che ha preso il controllo della città del nord e della capitale, e con al Qaeda (che nell’area si chiama Aqap, Al Qaeda nella Penisola Araba), sunnita, che per il momento gongola dalle ampie aree che sono completamente sotto il proprio controllo (amministrativo e militare) nella porzione di centro-sud. E a proposito dell’aiutare gli alleati, da qualche giorno girano sui media stime che parlano della perdita di oltre 500 milioni di dollari di armamenti, che il Pentagono aveva messo a disposizione dell’esercito yemenita ─ in parte distrutti, in parte in mano ai ribelli sciiti. Non bastasse a decretare il fallimento del modello, sabato gli Stati Uniti hanno evacuato gli ultimi 100 advisor delle forze speciali rimasti nel paese: erano lì per fare training ai soldati locali, ma tenerli sul posto era diventato troppo rischioso.

La situazione critica di Sana’a ha ripercussioni su tutta la Penisola Araba. A risentirne, più di chiunque altro, è l’Arabia Saudita. Riad si trova da tempo stretta su un doppio asse: quello del terrorismo sunnita, con l’IS a nord, in Iraq, e a sud, con Aqap; e quello sciita, con le milizie filo-iraniane irachene, e quelle Houthi, sempre filo-iraniane, in Yemen.

Mentre la Casa Bianca predica cauta prudenza e si affida per la risoluzione al mediatore Onu incaricato, il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal, ha detto lunedì durante una conferenza congiunta con l’omologo britannico Philip Hammond, che «i Paesi arabi» si riservano la libertà di prendere delle proprie soluzioni se l’aggressione degli Houthi non si risolverà a breve e in modo diplomatico. Poi ha chiarito che sono pronti a un intervento militare in Yemen (che i sauditi considerano “la caletta sul mare” a sud di casa) oppure potrebbero inviare armi al governo di Abd-Rabbu Mansour Hadi ─ che è allo stesso modo un intervento militare. Infine ha attaccato l’Iran, considerato il responsabile di quello che sta accandendo, con le sue «interferenze» e i suoi «sforzi» per «fomentare il conflitto confessionale negli Stati arabi». D’altronde gli iraniani, con cui Obama sta dialogando sul nucleare, si vantano che ora, con Sana’a, «occupano» quattro capitali arabe (le altre sono Damasco, Baghdad e Beirut).

Sempre lunedì, Riyadh Yaseen, nominato da Hadi come suo ministro degli Esteri ad interim aveva chiesto al Consiglio di cooperazione del Golfo di imporre una no-fly zone sulle zone controllate dagli Houthi, perché stanno ricevendo continuamente aiuti (finanziari e militari) dall’Iran, anche se ufficialmente tutti negano dicendo che si tratta di “roba umanitaria” ─ da quando in gennaio i ribelli hanno preso la capitale, i voli giornalieri diretti a Teheran sono diventati 14, gestiti da Yemenia Airways e dall’iraniana Mahan Air. Yaseen era al Cairo: il paese del generale Sisi, ormai è diventato il posto da dove si chiedono gli interventi militari internazionali (tipo: “Sono il signor Sisi, risolvo problemi“).

Il suolo yemenita, è già il campo di battaglia di un’altra guerra proxy, sullo stampo di quella siriana, tra Iran e monarchie del Golfo ─ per fortuna, ancora per il momento, al Qaeda e i gruppi affiliati allo Stato islamico sono un po’ in disparte, ma c’è da giurare che è una strategia per sfruttare il campo nel momento di maggior convenienza (sebbene pochi giorni l’IS ha fatto 140 morti in un doppio attentato che ha preso di mira due moschee sciite). «Per anni lo Yemen ha sfidato tutti i pronostici e smentito chiunque diceva che era sull’orlo della guerra civile e sul punto di crollare» ha detto a Reuters Farea al-Muslimi, un ricercatore del Carnegie Middle East Center. «But we may have run out of miracles», ha chiosato.

Nell’avanzata gli Houthi hanno trovato l’alleanza delle milizie fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, scacciato dal potere nel 2012 sull’onda delle primavere arabe, dopo trentadue anni di governo pseudo-dittatoriale ─ e ancora una volta, come i baathisti iracheni e i fedeli del rais libici, i rancorosi gruppi tolti dal potere sono protagonisti di queste nuove vicende. Dall’altra parte, sebbene lo Yemen sia stato un paese dove i contrasti confessionali sono rimasti spesso sopiti, spaventati dal progresso delle forze sciite, i sunniti hanno iniziato a far quadrato nelle provincia di Marib (dove si trovano alcune istallazioni petrolifere), mentre alcune tribù combattenti si stanno avvicinando ad al Qaeda nella zona di al Bayda.

Finora la crisi non ha avuto un punto di svolta verso “la guerra”, anche perché non c’è stato nessun esplicito sostenitore (attenzione: sottolineare “esplicito”) esterno sul piano militare, ma se la situazione continuerà arriverà anche il coinvolgimento ufficiale dal di fuori ─ che sia l’Iran o l’Arabia Saudita ─, e sarà quello l’inizio del conflitto. In ballo ci sono anche interessi internazionali, come quelli legati alla rotta di navigazione Bab al-Mandeb, un gateway energetico vitale per l’Europa, l’Asia e gli Stati Uniti.

Se i sauditi decideranno di fornire le armi ai sunniti yemeniti (o al governo da Aden), sarà non solo l’ulteriore prova del fallimentare modello di contenimento obamiano, ma della debacle in politica estera di Washington, che perde mano a mano l’influenza pure sugli alleati storici.

@danemblog

 

   

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