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Gli USA coordinano raid aerei con sauditi e iraniani, nello stesso momento (anche se sono nemici)

Nella serata di mercoledì. facendo fede all’esplicita richiesta del governo iracheno, gli Stati Uniti hanno iniziato i raid aerei su Tikrit ─ la cittadina irachena su cui l’esercito di Baghdad, appoggiato da un gran numero di milizie sciite filo-iraniane, un paio di settimane fa aveva lanciato un’importante offensiva contro lo Stato islamico (che da giugno dello scorso anno ha preso il controllo della città).

La situazione tattica era di stallo: senza un sostanzioso appoggio aereo, quelle che all’inizio si erano rivelate facili vittorie, si potevano trasformare in una completa disfatta ─ che si sarebbe portata dietro pure diverse perdite. Le forze irachene si trovano attualmente intorno al nucleo abitato centrale, in una sorta di paludoso assedio, tanto che già dieci giorni fa alcuni comandanti di Baghdad, avevano già fatto sapere ai media della necessità dei raid aerei.

L’intervento militare US-led su Tikrit (“US-led”, perché secondo quanto rivelato da un anonimo funzionario americano ad Associated Press, anche altri paesi avrebbero preso parte ai raid), segna una significativa espansione del ruolo militare degli Stati Uniti in Iraq. L’offensiva lanciata (#TikritOp è l’hashtag spinto per seguirla), era stata progettata senza la concertazione di Washington: anzi, l’avviso del via delle operazioni, era arrivato ai funzionari americani in contemporanea ai media; cioè, non c’era stato un coordinamento, o almeno una segnalazione ufficiale preventiva. Mentre invece, Baghdad aveva chiesto consulenza e appoggio all’Iran. Qassem Soleimani, il capo delle operazioni estere dei Pasdaran e mente della politica estera iraniana, si trova addirittura sul campo a dirigere le operazioni ─ ed era arrivato a Tikrit due giorni prima del “Go!”. Gli iraniani coordinano le milizie sciite irachene (oltre ad alcuni advisor delle proprie forze speciali), che sono il vero motore dell’attacco a Tikrit: sia perché sono più forti (più addestrate, più preparate, più armate) dell’esercito iracheno, sia perché sono in un moltiplicatore 6/7x rispetto ai due/tre mila dei soldati di Baghdad.

Tikrit è un passaggio molto importante della guerra al Califfato. Sia perché rappresenta un test militare per ponderare la consistenza della possibile “squadra” che prenderà d’assalto Mosul (che è considerata una battaglia spartiacque per l’azione anti-IS), sia perché Tikrit è un luogo particolare. Città a maggioranza sunnita, era diventata la roccaforte dei rancorosi superstiti baathisti di Saddam, poi riciclati con lo Stato islamico. Osservare come procederà la gestione amministrativa post-liberazione (quando avverrà) da parte degli sciiti delle milizie e dei filo-sciiti dell’esercito, sarà un banco di prova, chiaro, per valutazioni sulla possibile stabilità nazionale ─ che è fortemente condizionata dall’equilibrio confessionale.

Proprio la forte presenza di queste realtà confessionali, tutte rispondenti agli ordini di Teheran, aveva complicato la missione. Washington si era rifiutato di collaborare direttamente con “la minaccia-regionale-Iran”, anche se contemporaneamente flirtava con i messi diplomatici degli ayatollah al tavolo negoziale sul nucleare. Ora le cose sono sostanzialmente cambiate, anche se dal Pentagono ci tengono a sottolineare che non c’è nessun coordinamento ─ dichiarazione che sembra non sostenibile da un punto di vista logico, visto che gli aerei che bombardano devono avere consapevolezza di dove si trovano le “forze alleate” a terra.

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Ma se in Iraq gli iraniani a terra (e le milizie sciite amiche di Teheran) sono, in questo momento, alleati da difendere con uno scudo aereo, in Yemen i fronti si invertono.

Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di alcuni funzionari sauditi pubblicate ieri da Reuters ─ «Non ci sono per un intervento militare, le truppe ai confini hanno un fine puramente difensivo» ─ certificate dagli americani ─ “abbiamo da tempo informazioni di intelligence su movimenti di mezzi militari sauditi verso lo Yemen, ma è una questione di difesa dei confini” ─ mercoledì notte Riad ha lanciato i primi raid aerei contro gli Houthi. La giornata di mercoledì aveva fatto segnare un picco della crisi, con i ribelli (che ormai controllano mezzo paese) che si spingevano fino a sud, minacciando di attaccare Aden, città dove il presidente in carica Mansour Hadi si era rifugiato (si dice, senza ulteriori conferme, che ora sia fuggito in barca verso Gibuti) ─ gli Houthi avevano conquistato, nel cammino verso sud, la base militare di al-Annað, quella da dove era stati evacuati gli ultimi advisor militari americani (gli ultimi pezzi del modello yemenita per il contenimento terroristico, che è caduto a pezzi). (A quanto pare, oltre alla perdita di equipaggiamento, gli americani si sarebbero visti sottrarre anche numerosi sensibili file di intelligence, contenenti i piani delle operazioni Ct (counterterrorism), con i nomi delle fonti: un articolo del Los Angeles Times, dice che “questa roba”, finita in mano ai ribelli sciiti, è stata poi consegnata agli iraniani).

Gli Houthi sono sciiti (in realtà sono zaiditi, setta confessionale che prende il nome dal quinto imam, Zaid ibn ‛Ali, nipote di Husain) e sono sostenuti militarmente e finanziariamente dall’Iran. Per questo la crisi in Yemen, che è lo stato più povero della regione, rappresenta un grosso nodo geopolitico. L’Arabia Saudita non tollera l’intromissione iraniana; allo stesso tempo deve fare presto, perché sa che, una volta risolto l’accordo nucleare, sarà più complicato rinculare l’influenza di Teheran nell’area, visto la possibile deterrenza della bomba nucleare. (Nota: è un timore, perché con gli accordi non verrà concesso all’Iran di produrre armamenti nucleare, anzi, tutt’altro. Ma diversi Paesi dell’area temono che le concessioni siano troppo larghe, e che i mullah possano trovarci spazio per portare avanti lo stesso il proprio programma atomico).

Gli attacchi aerei contro le postazioni houthi sono stati lanciati non solo dall’Arabia Saudita, che ha partecipato con oltre 100 aerei: sembra si sia trattato di una joint ventures in un’ampia operazione che prende il nome di Decisive Storm a cui hanno dato il contributo pure 30 caccia degli Emirati, 15 del Bahrein, 15 kuwaitiani, 10 aerei dal Qatar, 6 giordani, 6 marocchini e 3 aeromobili dal Sudan.

L’ambasciatore saudita in America, Abel al Jubeir, ha avvisato dei raid in Yemen la Casa Bianca, che ha espresso sostegno all’operazione. «Il presidente Obama ha autorizzato la fornitura di supporto logistico e di intelligence per le operazioni militari condotte dal Consiglio di Cooperazione del Golfo» ha dichiarato la portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale Bernadette Meehan.

I Paesi che partecipano a Decisive Storm in Yemen sono tutti alleati americani, e molti di questi sono nemici giurati dell’Iran, che è invece alleato americano in Iraq. Seguire la linea comincia a diventare difficile.

@danemblog

 

 

 

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