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L’ultima regia di Ronconi all’opera di Roma

Il sipario del Teatro dell’Opera di Roma si alza sull’ultima regia di Luca Ronconi: Lucia di Lammermoor. La “prima” di martedì 31 marzo, ore 20, sarà trasmessa in diretta su Rai Radio 3. Era la prima volta che il regista si confrontava con l’opera di Donizetti. Il suo progetto verrà realizzato dai collaboratori storici: Gianni Mantovanini (luci), Gabriele Mayer (costumi), Margherita Palli (scene), Ugo Tessitore (regia).

Sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma il Maestro Roberto Abbado. Maestro del Coro Roberto Gabbiani. La famosa scena della pazzia verrà eseguita nella versione con Glasharmonika (armonica a bicchieri), un evento che rispecchia scrupolosamente la scrittura di Donizetti ma molto raro; è stato ingaggiato dall’estero uno specialista. Nel ruolo di Lucia ascolteremo il soprano Jessica Pratt e per una replica Maria Grazia Schiavo (10 aprile), interpreti di Edgardo i tenori Stefano Secco e José Bros (10 aprile). Ancora nel cast vedremo il baritono Marco Caria (Enrico), Alessandro Liberatore (Arturo), Carlo Cigni (Raimondo), Simge Büyükedes (Alisa) e Andrea Giovannini (Normanno).

“Portare in scena e far vivere il progetto per la Lucia di Lammermoor che Luca Ronconi aveva ideato, e già definito, per il nostro Teatro è un dovere e credo sia il migliore omaggio e il miglior ricordo che possiamo fare a Luca Ronconi”, ci ha detto il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Carlo Fuortes. Il regista Ugo Tessitore ha chiarito come sia stato possibile portare in scena il progetto di Ronconi: “Abbiamo lavorato molto assieme, influenzandoci e verificandoci l’uno con l’altro, coordinandoci come una squadra affiatata. In quei giorni d’agosto, a Pesaro, mi ha espresso un’idea che voleva realizzare – spiega Tessitore – ovvero che Lucia tornasse dopo essere morta, che tornasse viva dopo il compianto del suo innamorato. La scena è una prigione, ma anche un monastero, una fortezza, un manicomio: quello che qualche anno fa si definiva «istituzione totale». Per questo non possono esserci né piante né fiori: è un universo concentrazionario”.

Tratta da uno dei romanzi storico-romantici dello scozzese Walter Scott, di cui La Pléiade ha appena pubblicato la collezione integrale (anche se in Italia è noto solo per le edizioni hollywoodiane e televisive di “Ivanohe”, messa in musica, tra l’altro, in un ‘centone’ di Gioacchino Rossini rappresentato alcuni anni fa al festival di Martina Franca), Lucia rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito (al pari di quanto avviene nel capolavoro rossiniano ispirato ad un altro lavoro di Scott, La donna del lago).

Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo.
‘Lucia’ è un apologo di potere bruto che vede protagonisti uomini guerrieri coinvolti in continue violenze e questo stesso mondo di violenza maschile opprime, schiaccia l’innamorata Lucia, appena orfana di madre, salvata dall’amato Edgardo da un letale violento toro.

Nella maggior parte dei numerosi allestimenti dell’opera che sono stati proposti sui palcoscenici di tutto il mondo, Lucia è predisposta alla follia fin dalla prima entrata. Non è affatto folle fin dal principio, ma al contrario una persona piena di emozioni giuste, umane, sane, anche se fragile. Lucia è in pieno possesso della sua vita empatica, ammette il dolore, conosce l’amore e lo vive emotivamente, la gioia che Donizetti sottolinea con tutta l’introduzione dell’arpa, le angosce più profonde del nostro essere e, contrariamente a suo fratello, lei vive queste emozioni. Enrico è morto in quanto odia se stesso e gli altri, segue esclusivamente le logiche del potere ed è quindi determinato dall’esterno, non ha una vita interiore come Lucia.

La musica di Donizetti fa emergere di battuta in battuta una differenza evidente e abissale tra il mondo femminile di Lucia fatto di un susseguirsi continuo di diversi sentimenti, amore ed emozioni e quello unilaterale maschile dove trionfano quasi unicamente la smania di potere, di guerra (quindi di distruzione) e l’odio. Le musiche del mondo di Enrico sono spesso marce o musiche cupe. Enrico è infelice, odia se stesso, non conosce l’amore, non ha una donna, non soffre per la morte della madre e ne parla soltanto in una battuta cinicamente. Si potrebbe anche dire che ciò che sembra essere normale sia in realtà la vera follia.

Enrico, Raimondo, Normanno e in parte anche Edgardo sono personaggi deformati con grandi mancanze emotive. Lucia rimane sorpresa e quasi scioccata dal primo incontro con l’amato Edgardo: si frequentano da molto tempo anche se di nascosto, ma finora non lo aveva mai conosciuto come uomo di potere, e ignorava il suo odio. La protagonista viene poi condotta alla follia da giochi di potere e inganni ad esso legati. Il culmine dell’opera è la famosa scena della follia che viene sempre rappresentata seguendo i cliché di quello che noi pensiamo sia folle con strani gesti e atteggiamenti gratuiti che non arrivano in nessun modo al vero nucleo di quanto accade con Lucia.

È sorprendente che Cammarano e Donizetti la facciano parlare di Edgardo pur avendo appena assassinato Arturo. Lucia assassina parla con amore di Edgardo. C’è una sola spiegazione a questa scelta drammaturgica: in verità Lucia è stata spinta alla schizofrenia. Si è ribellata ai giochi di potere esterni a lei, ammazzando Arturo per salvare dentro di sé la sua vera vita emozionale, cioè l’amore verso Edgardo.

In questa edizione, Lucia arriva in scena con il cadavere di Arturo, ma per lei questo morto diventa in una proiezione psicologica il simbolo del suo amore per Edgardo. Tutta la scena (come dimostra la musica) è piena d’amore. Tutti rimangono scioccati e quasi pietrificati (Donizetti non fa più cantare né il coro né Raimondo): Lucia riesce a realizzare il suo vero amore solo con il morto Arturo. Anche se è presto per emettere un parere: la scena unica ed i costumi (in nero per gli uomini ed in bianco per le donne) suggeriscono che Ronconi darà una lettura molto simile a quanto riassunto.

Portare Lucia in scena una sfida per una ragione specifica connessa alla “tradizione” italiana. Nelle edizioni in circolazione dalla seconda metà dell’Ottocento vengono operati tagli copiosi (quasi un terzo della partitura), principalmente nei ruoli maschili; la vocalità della protagonista veniva portata a soprano drammatico.

I tagli hanno l’effetto di imperniare tutta l’opera su Lucia, dimenticando che si svolgono due azioni parallele: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le fanciulle, pure le sorelle, sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. La Lucia tagliata della “tradizione” è un romanzetto romantico, invece del doppio dramma parallelo.

Circa tre lustri fa, Zubin Metha e Graham Vick portarono una Lucia quasi integrale al Maggio Musicale Fiorentino e al Grand Théatre di Ginevra. Operazione coraggiosa che a Firenze, però, non venne approvata dal pubblico. Lo spettacolo è poi approdato al Costanzi di Roma e in altri teatri della Penisola. In un’edizione di successo, premiata al debutto a Cagliari, e vista anche a Parma, l’opera (regia, scene e costumi di Denis Krief) era quasi integrale e si svolgeva in una Scozia atemporale e marina (i costumi sono di metà Novecento- forse il periodo della guerra di Spagna data la foggia delle uniformi).

Di notevole impatto anche, l’edizione Svoboda-Brockhaus, contemporanea a quella di Mehta-Vick. Ci sono, però, differenze sostanziali sia nella regia sia nel trattamento musicale. Vick utilizzava una scena unica (un grigio soffocante interrotto da cespugli rosa, ed una grande luna piena) ed una chiara collocazione temporale. La versione Svoda-Brockhaus si rivista, pur se ‘ripensata’ dal regista per portarla dallo Sferisterio a palcoscenici di ‘teatri di tradizione’ al chiuso, si è rivista un paio di anni fa quando ben a ben otto teatri (il circuito lombardo, il circuito marchigiano e il teatro Alighieri di Ravenna) .

La versione di Luca Ronconi e dei suoi collaboratori si differenzia da tutte queste citate: la scena unica , i costumi neri degli uomini e bianchi per le donne suggeriscono una lettura introspettiva, tutta psicologica.

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