Il semestre europeo a presidenza italiana del 2014 ha avviato impegni comuni da parte dei governi per il riconoscimento del diritto al cibo: la Carta di Roma sul capitale naturale e culturale e la Carta di Bologna sullo spreco alimentare, che definisce azioni concrete di lotta, sulla base di una definizione condivisa di food waste e metodologie uniformi di quantificazione e di monitoraggio. Concluso il semestre, l’Italia si ripropone al mondo nel 2015 con l’Expo e con un’offerta ambiziosa: rilanciare, contro l’austerità, il modello di sviluppo sostenibile della green economy.
Ma non è solo un’offerta: la vera sfida è presentarsi con una richiesta, una domanda diffusa di assunzione di responsabilità collettiva. Ogni visitatore potrà firmare la Carta di Milano per partecipare al processo globale di definizione dell’Agenda Onu post-2015 e degli obiettivi di sviluppo sostenibile del millennio. Ed è così che l’anima dell’evento, come dice il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina, mira a rendere i visitatori consapevoli dell’urgenza che a tutti gli abitanti del nostro pianeta sia riconosciuto un eguale diritto al cibo, se-condo il principio dell’equa ripartizione dei benefici derivanti dall’uso sostenibile delle risorse naturali, patrimonio di tutti e non esclusivo di pochi.
Nato nel 1851 a Londra, nell’età dello sviluppo industriale e degli imperi coloniali, dopo le guerre mondiali del 900, l’Expo ha sviluppato il dialogo fra gli Stati – che hanno partecipato sempre più numerosi, dai 39 a Bruxelles (1958) ai 193 a Shanghai (2010) – esponendo i progressi dello sviluppo e i problemi che da questo derivano. Ma negli ultimi anni è diventato un incontro che riunisce i popoli della Terra, un incontro di comunità più che di Stati.
Il mio invito, da “navigante con cassetta degli attrezzi” nel laboratorio costituzionale mondiale, è questo: cogliere l’opportunità che l’Expo offre per una cooperazione rafforzata – uso il lessico dell’integrazione europea – fra i popoli, ovviamente con consenso e flessibilità. Ad esempio, propongo la buona pratica di concrete collaborazioni fra i Paesi – quello che ha ospitato l’Expo, quello che lo ospita e quello che lo ospiterà – fra le varie rappresentanze e movimenti al loro interno e i relativi consulenti scientifici. L’esempio è quello della Troika europea e del lavoro comune fra le presidenze semestrali: oggi non è un modello invitante perché richiama i controlli per le emergenze dei debiti sovrani e lo cambierei, ma resta il valore di garanzia di continuità.
La formula potrebbe riguardare anche la scelta dei temi, segnando percorsi prioritari che si snoderebbero nel tempo con il monitoraggio e la valutazione dei risultati degli impegni. Esemplificando, la possibile collaborazione nella triade in corso riguarderebbe: l’Expo di Shangai 2010 con il tema “Sviluppo urbano sostenibile nell’era delle megalopoli”, l’Expo di Milano 2015 “Nutrire il pianeta, Energy for life”, tema che ha come immediate connessioni acqua ed energia ed è in diretta relazione con cambiamenti climatici e demografia, l’Expo di Dubai 2020 “Connecting minds, creating the future: sostenibilità, mobilità, opportunità”, che si propone come hub fra est e ovest. Dimensione comune è quella dello sviluppo sostenibile, ma si segue l’evento più che l’impegno per risultati concreti che prendano in considerazione la limitatezza di questi beni comuni. Invece, serve la collaborazione operosa di tutti, e soprattutto scientifica per custodire la Terra “con tenerezza”, come dice papa Francesco.
A riguardo un esempio è rappresentato dai contatti del Cnr, consulente ufficiale del Padiglione Italia, con i partner di Dubai, ma serve l’ulteriore impegno di università e accademie. Per questo, l’ipotesi di inserire nella Costituzione italiana il diritto al cibo mi sembra riduttiva. È vero, le Costituzioni di 23 Stati del mondo prevedono questo diritto e molto opportunamente. Sono Stati post-coloniali o di democrazia riconquistata dopo fasi autoritarie con Costituzioni relativamente giovani. Sono Stati dell’Africa (Congo, Etiopia, Malawi, Nigeria, Sudafrica, Uganda), dell’Asia (Bangladesh, India, Iran, Pakistan, Sri Lanka), di gran parte dell’America del sud: hanno affrontato e affrontano transizioni complesse, con indici di povertà elevati.
La Costituzione italiana, invece, è frutto di una promessa comune – questo è il significato di compromesso – fra culture diverse che condividono il valore della dignità della persona umana e, come disse Calamandrei, ha il dono di essere presbite, di guardare lontano nei suoi principi fondamentali. Consente “alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” e favorisce “le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. È la prima, fra le Costituzioni del secondo dopoguerra, consapevole della necessità di un ordinamento mondiale e di organizzazioni internazionali che integrino la garanzia dei diritti fondamentali.
Di qui l’immediata adesione alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e agli altri atti dell’Onu, dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali (1966), alle Convenzioni sulle discriminazioni contro le donne (1980) e sui diritti dell’infanzia (1989). In questi atti, ratificati dalla Repubblica, il diritto al cibo è espressamente previsto: dunque tale diritto è già nella nostra Costituzione (come il diritto all’acqua) ed è principio fondamentale del costituzionalismo globale – di cui l’integrazione europea, pur con i suoi limiti, è il laboratorio più avanzato. Tale costituzionalismo ha le sue fondamenta nello sviluppo sostenibile e nella tutela delle future generazioni. Il cibo è ciò di cui un organismo vivente si nutre; questa è la definizione riconosciuta.
Expo propone un’inversione globale di prospettiva con una definizione più ampia: il cibo è anche un servizio che la biodiversità, in termini di capitale naturale, ha garantito da sempre all’umanità tutta. Un “servizio eco-sistemico”, il cui funzionamento però, oggi, è messo a rischio da modelli di comportamento e di sviluppo non rispettosi e non lungimiranti, derivanti dalla mancanza di una coscienza ambientale e sociale che possa sostenere il benessere collettivo e la sicurezza alimentare. Al capitale naturale, fornitore quindi di servizi per necessità primarie, prima tra tutte il nutrimento, va riconosciuto un valore anche economico e, per garantire quantità e qualità nell’offerta, è necessario custodirlo, valorizzarlo e soprattutto utilizzarlo sostenibilmente. Ecco: è al capitale naturale più che al cibo che propongo di dare rilievo costituzionale, ma darne rilievo nelle costituzioni nazionali è insufficiente e non ne garantirà mai l’effettività.
Melina Decaro, Docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università Luiss Guido Carli e Giulia Bonella Esperta in biodiversità