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Tutte le piroette di Massimo D’Alema

Le disavventure di Massimo D’Alema, furioso per lo “sputtanamento” procuratogli dal solito uso disinvolto di intercettazioni telefoniche diffuse nel “contesto” di indagini giudiziarie su altri, mi hanno fatto tornare alla mente il compianto Filippo Mancuso.

Era proprio a D’Alema che nelle conversazioni con gli amici l’ex guardasigilli sino agli ultimi giorni della sua vita, nel 2011, non si stancava di attribuire la maggiore responsabilità politica di quelle che lui, vecchio magistrato, considerava “degenerazioni” nell’amministrazione della giustizia. E me ne spiegò una volta le ragioni raccontandomi di una cena a casa di Alfio Marchini. Alla quale lo stesso Mancuso fu invitato, non ricordo francamente più bene, se poco prima o poco dopo la sua nomina a ministro della Giustizia nel governo di Lamberto Dini, succeduto nel 1995 al primo dei quattro governi di Silvio Berlusconi.

Fra gli ospiti, nell’abitazione romana di Marchini, c’era anche D’Alema, allora segretario del Pds-ex Pci. La conversazione, stimolata anche dalla grande competenza di Mancuso, andato in pensione da procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, cadde ad un certo punto sulle inchieste giudiziarie che dominavano le cronache anche della politica. Erano le indagini su Tangentopoli, a Milano, e sulla mafia, a Palermo.

Dall’ovvio consenso di principio alle inchieste in corso si passò alle critiche dei loro eccessi, per il troppo facile ricorso agli arresti preventivi, con tanto di riprese televisive, e per lo spazio che lasciavano a sbrigativi processi mediatici e politici, prima ancora che potessero cominciare quelli veri nelle aule dei tribunali.

D’Alema partecipò alle critiche anche in riferimento alle voci o allusioni che ogni tanto lo riguardavano personalmente. E Mancuso rimase particolarmente impressionato dal vigore con il quale il segretario del Pds si riprometteva di contrastare chi avesse voluto o tentato di coinvolgerlo a torto, pur di danneggiarne immagine e carriera. La foga fu tale che D’Alema strinse il pugno e colpì il tavolo con le sue già mitiche nocche.

Anche a quella scena, e alle parole che l’accompagnarono, Mancuso pensò quando, alla guida del Ministero della Giustizia, trovò conferme ai dubbi che egli già coltivava su certi aspetti e metodi delle inchieste giudiziarie su Tangentopoli e sulla mafia. Egli decise, fra l’altro, di rimandare a Milano gli ispettori. Rimandare, perché altri erano già stati inviati dal suo predecessore Alfredo Biondi, ma avevano dovuto praticamente ritirarsi di fronte alle resistenze opposte dalla Procura all’accesso ai loro atti.

Convinto di poter trovare sulla sua strada il sostegno di D’Alema, con quelle nocche sbattute così duramente a casa di Marchini, il ministro rimase sconcertato per la fretta e la durezza con le quali i parlamentari del Pds si unirono alle proteste contro le sue iniziative. Proteste che erano partite peraltro dal Quirinale, dove pure era stata voluta la nomina del ministro e si consumò pertanto una rottura tanto clamorosa quanto insanabile. Seguì la sfiducia “personale” al ministro votata al Senato, promossa dalla stessa maggioranza di cui faceva parte anche il Pds e inutilmente impugnata da Mancuso davanti alla Corte Costituzionale.

Una coda ulteriormente velenosa a quell’epilogo fu nel 2002 il veto opposto dalla sinistra in Parlamento alla candidatura di Mancuso, diventato nel frattempo deputato di Forza Italia, a giudice costituzionale. Un veto tanto forte, ma evidentemente spalleggiato in qualche settore della stessa Forza Italia, che alla fine il seggio della Consulta spettante al centrodestra fu aggiudicato al professore Romano Vaccarella, proposto in particolare da Cesare Previti a Berlusconi. Che era tornato l’anno prima a Palazzo Chigi dopo i passaggi di Dini, di Romano Prodi, dello stesso D’Alema e di Giuliano Amato. E con ciò si ruppero anche i rapporti tra Forza Italia e Mancuso, irriducibile come al solito, nelle simpatie e nei risentimenti.

Più che dell’obiettivo mancato di giudice costituzionale, Mancuso soffrì tuttavia, sino alla morte, della delusione procuratagli da D’Alema nell’esperienza di ministro della Giustizia. Egli era convinto, forse non a torto, di avere inutilmente offerto nel 1995 alla Politica, con la maiuscola, e dalla insospettabile posizione di vecchio e integerrimo magistrato, una irripetibile occasione di riequilibrio dei rapporti con un ordine o potere giudiziario già spintosi ben oltre i confini della Costituzione e – soleva aggiungere – del buon senso. Lo stesso buon senso, peraltro, di cui D’Alema ha appena lamentato l’assenza da parte dei giornali annunciando il ricorso alle “carte bollate” per difendersi da una “campagna scandalistica” di cui sente vittima per i suoi vini e libri legittimamente acquistati da una cooperativa rossa di Modena.

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