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Cari renziani, ecco il cambiamento che serve per il lavoro

Il Governo contesta i dati di Istat con albagia ormai divenuta molesta e insopportabile ai più: vero è che nonostante i sempre rimpallati pseudo salvifici 80 euro in busta paga (ma non per tutti!) giustamente una maggioranza schiacciante di popolo italiano non vede segnali oggettivi di inversione di tendenza di ripresa che rimane obbiettivamente in un tunnel nero.

I numeri non sono un’opinione: 50% di pressione fiscale, tasso di disoccupazione in aumento e il buon Ministro Poletti che promette un milione di posti di lavoro, fa quasi tenerezza (se non lo conoscessi bene!).

E parlando di numeri chiunque in Europa e in Italia sa bene che senza vincolare le politiche attive a quelle passive – cioè favorendo l’attivazione del disoccupato ed il suo reinserimento nel mercato del lavoro – c’è il rischio che i sussidi in via di trasformazione divengano economicamente insostenibili e bisognerebbe avere ben chiara in questo momento la disponibilità economica per mettere in moto il JA soprattutto in questi giorni quando si prepara il DEF,e c’è la mannaia delle clausole di salvaguardia che scattano se non c’è la copertura finanziaria e dunque o si tagliano le spese oppure aumentano le tasse per il popolo italiano.

Dunque Renziani dite la verità: e subito con i conti, con le loro traduzioni operative,sapendo che con le materie istituzionali anche concorrenti non è facile governare il sistema, soprattutto se il mercato del lavoro è così diverso tra il Nord ed il Sud del paese.

La differenza sta nel fatto che in Germania, in Austria o in Spagna si sono adottate soluzioni tecniche per realizzare effettivamente l’integrazione tra servizi per il lavoro, formazione e sostegni al reddito, facendone un obbiettivo “nazionale concreto ad esempio con la nascita di Agenzie che riunifichino le funzioni di enti che gestivano politiche attive e passive e noi siamo ancora qui a dissertare sulla Agenzia Nazionale con il bilancino politico di chi fa che cosa a Roma e nelle Regioni.

Solo per avere una idea: nel confronto con l’Europa l’investimento italiano in servizi per il lavoro, rispetto alla Francia ed alla Germania la proporzione non si pone nemmeno: dai dati Eurostat per ogni persona che cerca lavoro in Italia l’investimento nazionale è stato in questi anni in media di meno di ottanta euro l’anno, mentre in Francia ed in Germania è stato di circa millecinquecento euro a persona.

Fino ad ora si può affermare che al di la delle retoriche il nostro paese non credendo nella efficacia dei servizi per il lavoro non ha investito. In Germania la spesa sul PIL è pari allo 0,35% del PIL mentre in Italia è pari allo 0,03%. E soprattutto se si guarda alla dinamica delle spese nel tempo si osserva che la Germania ha aumentato l’investimento nei servizi proprio nella fase di maggiore crisi economica raggiungendo l’obiettivo di ridurre drasticamente soprattutto la disoccupazione giovanile.

Analoga strategia è stata adottata dalla Francia e dal Regno Unito, per non parlare di paesi come l’Olanda, la Danimarca, la Svezia e l’Austria che hanno attribuito ai servizi per il lavoro una funzione chiave nello sviluppo delle politiche per il lavoro. In queste ore il Governo ha comunicato che sta cercando la fonte di finanziamento (10 miliardi) per incrementare gli ammortizzatori sociali.

Sicuramente c’è un ritardo culturale, soprattutto se consideriamo il fatto che le politiche attive ed in particolare i servizi per il lavoro sono stati considerati come elementi marginali nello sviluppo delle politiche del lavoro e ora l’integrazione tra pubblico e privato è divenuto fondamentale, e il gap tecnico e di governance nella applicazione delle norme introdotte dalle diverse riforme che si sono succedute, è conseguenza dell’atteggiamento demagogico e il ritardo culturale verso le funzioni di sussidiarietà tra sistemi integrati, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro.

Già il Pacchetto Treu prevedeva nel 1997 la creazione di un sistema informativo del lavoro, è con la riforma Biagi che il principio viene introdotto in modo organico e solo nel decreto legislativo 276/03 l’articolo 17 si prevedeva, appunto, la creazione di un sistema nazionale di monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro al fine di verificare l’efficacia degli interventi messi in campo.

Oggi esiste un sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie, anche la legge Fornero e ora il JA prevedono in realtà, monitoraggio e valutazione ma non sono resi pubblici i tempi reali e si continua a creare cabine di regia inermi. Senza una analisi accurata dei risultati è praticamente impossibile capire quali misure e quali interventi siano più o meno efficaci, soprattutto nella prospettiva di poterli correggere.

Anche la banca dati delle politiche attive e passive sperimentata nell’ambito della Garanzia Giovani potrebbe essere uno strumento efficace, ma c’è ancora molto da fare. Diciamocelo: in questi anni tutta la filiera delle politiche italiane destinate allo sviluppo umano è stata inadeguata: anche sulla formazione continua rimaniamo il fanalino di coda rispetto all’Europa.

I fondi interprofessionali italiani dichiarano importanti performance ed una maggiore attenzione da parte delle imprese alla formazione continua che però nel JAct è quasi sparita e i dati dei lavoratori tra i 25 ed i 64 anni che partecipano ad attività di formazione continua o di istruzione è del 6,5%.

Si tratta di risultati evidentemente modesti ed in alcune regioni, soprattutto nel Mezzogiorno, si rileva persino una significativa riduzione dei livelli di partecipazione. E teniamo conto che sono intervenuti massicci finanziamenti del Fondo Sociale Europeo oltre a risorse nazionali. Non c’è da essere né ottimisti né rassegnati. Sappiamo bene che il ritardo non è nella definizione di principi (quello della formazione continua è sistematicamente presente nelle nostre normative nazionali e regionali dalla introduzione dei Fondi interprofessionali fino ai richiami all’apprendimento permanente nella Legge 92/2012) ma nella programmazione e nella gestione di interventi per i quali, per altro, nemmeno si può parlare di risorse carenti.

Noi dunque dobbiamo veramente e subito con un Governo responsabile e non autoritario e confuso, segnare un cambiamento operativo: abbiamo i dati, ma mancano collegamenti tra strutture, tra valutazione dell’impatto delle politiche, le decisioni da prendere e le risorse da erogare.

Le riforme che si approvano, si applicano, anche quando comportano una complessa governance e l’integrazione di competenze istituzionali diverse e anche quando sono difficili da applicare. Una volta che le riforme sono state “completamente” applicate, grazie a sistemi informativi nazionali e territoriali (comuni) si monitora costantemente la loro evoluzione nel tempo reale e la loro capacità di rispondere sia alle esigenze della domanda di lavoro sia agli obbiettivi di coesione ed inclusione sociale che il paese si è dato.

Attraverso il monitoraggio si valuta l’efficacia degli investimenti e dei diversi istituiti introdotti (tipologie contrattuali, incentivi, servizi, soluzioni organizzative) mediante tecniche di valutazione condivise e decise uguali per tutti e sostenute dalle robuste basi dati garantite da sistemi informativi efficienti e facilmente accessibili da parte delle istituzioni e da parte della comunità scientifica.

Un volta individuati gli effetti, nell’ambito del dibattito istituzionale si individuano gli aspetti da correggere e quelli da consolidare aggiornando ed aggiustando norme e principi, sistemi organizzativi ed investimenti. Non si cambia per cambiare ma per raggiungere obbiettivi verificabili. E’ difficile ma non impossibile: bisogna solo saperlo fare.

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