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Perché anche il Congresso Usa appoggerà Obama sull’Iran

L’accordo quadro, concordato a Losanna tra il gruppo “5+1” e l’Iran, molto probabilmente diverrà definitivo a fine giugno. Anche allora costituirà solo un elemento della complessa scacchiera geopolitica di una regione chiave come il Medio Oriente. Non garantirà che Teheran rinunci definitamente all’arma nucleare. Sarebbe possibile solo se lo decidessero i responsabili politici dell’Iran.

Oltre la questione dei dettagli, aspetto essenziale e più difficile di ogni accordo e della impossibile certezza che tutti lo rispettino, esistono altre difficoltà. Negli Usa il Congresso, a maggioranza repubblicana, potrebbe rifiutare di approvare l’accordo. Ritengo improbabile che lo faccia. Alternative sarebbero lo status quo o il bombardamento degli impianti nucleari iraniani. Il primo favorirebbe l’Iran, consentendogli di accelerare la costruzione di armi nucleari. Il secondo non garantirebbe la distruzione definitiva delle capacità nucleari iraniane. Rallenterebbe il programma, ma non potrebbe eliminarlo. Molti impianti sono collocati a grande profondità; poi le capacità sono nella testa degli scienziati e tecnici nucleari iraniani. L’accordo quadro, poi, rende politicamente quasi impossibile agli Usa un’azione di forza.

Per l’Iran l’accordo è stato reso possibile dal sostegno dato dalla “Guida Suprema” al presidente Hassan Rouhani e al ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif. I “duri”, anche delle Guardie della Rivoluzione Islamica non erano in condizioni di opporsi ad Ali Khamenei. La speranza che un accordo consenta di eliminare le sanzioni e di mettere in ordine la disastrata economia renderà difficile rinnegarlo anche in caso di ritorno al potere dei radicali.

Incerta sarà invece la reazione delle altre potenze regionali. Non tanto quelle di Israele, che continuerà a protestare senza prendere iniziative militari, quanto quelle dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, della Turchia e anche del Pakistan, entrato a far parte della coalizione sunnita anti iraniana per lo Yemen. Israele accelererà verosimilmente la messa a punto di armi termonucleari o bombe H, di potenza enormemente superiore a quelle atomiche di cui già dispone. Il Pakistan, che è ampiamente finanziato da Riad, potrebbe dichiarare di estendere il suo ombrello nucleare ai Paesi sunniti del Golfo. Arabia Saudita, Egitto e Turchia potrebbero, dal canto loro, iniziare programmi nucleari militari, dando luogo a una pericolosa proliferazione. È comprensibile che si sentano minacciati. L’accordo quadro, si basa sulla logica di definire un “Breakout” di un anno, che cioè l’Iran non potrebbe, senza violare l’accordo, costruire un’arma nucleare prima di un anno, tempo giudicato dagli Usa sufficiente a prendere adeguate contromisure. I Paesi della regione diffidano non solo dell’Iran, che potrebbe continuare segretamente la costruzione della “bomba”, ma anche degli Usa. Temono che Washington dia priorità all’appoggio iraniano contro l’Isis rispetto alle sue tradizionali alleanze con i paesi sunniti.

Per essi, come per Israele, il “breakout” è troppo corto. Ma uno più lungo comporterebbe l’irrealistica richiesta della distruzione degli impianti nucleari. L’Iran non potrebbe accettarla. Taluni esperti ritengono che la reazione in caso di violazione dell’accordo non dovrebbe consistere solo nell’automatico ripristino delle sanzioni, ma in un’iniziativa militare. Nessuno è disponibile a prevederla. La Russia ha poi obiettato anche sull’automatismo del ripristino delle sanzioni: annullerebbe il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza.

Per uscire dalla destabilizzazione degli equilibri mediorientali, i cui esiti sono incerti, Washington potrebbe impegnarsi a estendere all’intero Medio Oriente la sua dissuasione nucleare, alla faccia dello “zero nuke” annunciato da Barack Obama a Praga nell’aprile 2009 e della “nuclear free zone” proposta dall’Egitto per la regione. Ma anche questo non è fattibile. I Paesi del Golfo dovranno accontentarsi di una specie di “Nato sunnita”, comprendente l’Egitto, e dell’appoggio “esterno” della Turchia e del Pakistan. Insomma, sul futuro geopolitico del Medio Oriente domina l’incertezza. I trionfalistici annunci della conclusione dell’accordo preliminare sono giustificati solo dal fatto che la sua mancanza avrebbe provocato guai maggiori. Di più non si poteva fare, considerando anche le divisioni esistenti nel gruppo “5+1” e l’abilità negoziale della delegazione iraniana che le ha brillantemente sfruttate.

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