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Chi vuole torturare la polizia dopo la sentenza di Strasburgo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

A distanza di 14 anni dai fatti di Genova, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine nell’ormai tristemente famoso assalto alla scuola Diaz.

Come spesso accade in Italia, si è voluto, forzatamente, dare un significato politico alla sentenza.

Senza alcun riguardo ai rilievi giuridici del caso, naturalmente avulsi dal contesto politico locale.
Semplificando al massimo, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia perché le persone colpevoli delle violenze subite da un cittadino ricorrente non sono state adeguatamente punite.

Questo, per assenza di rimedi giurisdizionali interni. Non certo, quindi, per negligenza della magistratura.

Semplicemente, l’ordinamento giuridico italiano non prevede il reato di tortura, sebbene il nostro Paese abbia sottoscritto e ratificato una serie di trattati internazionali che ne imporrebbero l’introduzione della fattispecie nel nostro codice penale.

La tipizzazione del reato di tortura è, infatti, stata costantemente rinviata dal nostro legislatore a partire dal lontano 1988, quando l’Italia ratificò la Convenzione di New York contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

Nella Convenzione, la tortura viene definita con rara chiarezza, dando particolare rilevanza a quelle che sono definite “sofferenze mentali”, parificate alle sofferenze fisiche nell’efficacia sulla coazione della volontà del torturato e a mortificarne la dignità.

Viene superata, così, la mera coptazione e violenza privata aggravata, assumendo rispetto a questa i contorni di una fattispecie di reato del tutto autonoma.

La stessa dignità della persona umana citata dalla Convenzione, è principio essenziale espresso dalla nostra carta Costituzionale (art. 3 : tutti i cittadini hanno pari dignità sociale), oltre che pietra angolare attorno al quale ruota il dibattito contemporaneo sui diritti umani fondamentali.

La domanda a questo punto inevitabile è: perché l’Italia, dopo ventisette anni dalla ratifica della Convenzione dell’Onu, non ha ancora introdotto nell’ordinamento il reato di tortura che, per di più, è implicito nei valori che la nostra Costituzione ci vincola a difendere?

Non si spiega, per di più, l’opposizione all’introduzione del reato da parte di ampia parte dell’opinione pubblica: parti politiche, membri delle forze dell’ordine e dei loro sindacati.

Negando la possibilità di individuazione e di sanzione per i pochi colpevoli di tortura, si finisce con l’omologare nella colpa chi è innocente e l’intero corpo delle forze di polizia.

L’introduzione del reato di tortura non sarebbe restrittivo né disonorevole, ma al contrario strumento essenziale a tutela della dignità, del prestigio e dell’onore delle forze dell’ordine, altrimenti odiosamente inserite in un ingiusto e morboso vortice di discussioni e contestazioni.

Gli esponenti che abusino del potere attribuito dallo Stato in difesa della società civile, dovrebbero poter essere sanzionati, rispondendo in maniera personale delle proprie azioni.

Ma, nonostante non sia stato possibile per il reato di tortura nel caso della scuola Diaz vista l’evidente lacuna nel nostro ordinamento, non si può in alcun modo strumentalizzare la sentenza per delegittimare le nostre forze dell’ordine.

La sentenza della CEDU, per sua stessa natura, fa riferimento a un fatto specifico e da questo non si può allargare.

Nè è possibile utilizzarla, tantomeno, per giustificare in alcun modo i selvaggi attacchi di alcune frange di criminalità organizzata subiti in quei tragici giorni dalla città di Genova e dai suoi abitanti.

Infine, non è accettabile la presunta superiorità morale vantata da alcune parti politiche o pseudo intellettuali: il valore della dignità umana che l’introduzione del reato di tortura dovrebbe tutelare, è di tutti.

I principi e i diritti umani sanciti dalla Costituzione affondano le proprie radici nelle tradizioni e culture politiche liberali, socialiste e cattoliche: nulla hanno a che vedere lo stucchevole dibattito politico recente e attuale.

Tutte queste, naturalmente, sono apparenti ovvietà e ci scusiamo col lettore se ne risulterà annoiato. D’altra parte sembra utile ricordarle, all’interno di un dibattito avvampato in questi giorni tra strenui difensori delle forze dell’ordine e loro accusatori.

Tutti stiamo con le forze dell’ordine, almeno tutti quelli che si considerano cittadini e consociati di uno stato di diritto quale l’Italia, orgogliosamente, è.

Tutti vogliono giustizia, nei limiti nel rispetto dei valori espressi dalla nostra Costituzione.

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