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Pensioni Inps, tutti i lavori in corso e un paio di tabù infranti

Andare in pensione prima dei 67 anni e con un assegno più magro. Il confronto pubblico sulla previdenza ruota attorno alla modifica di un pilastro della riforma promossa nel 2011 da Elsa Fornero.

Le aperture verso una maggiore gradualità

A rilanciare l’idea di rendere più flessibile la scelta di abbandonare il lavoro in cambio di una sensibile penalizzazione economica è stato il presidente dell’Inps Tito Boeri.

Proposta criticata da studiosi della materia, ma che ha provocato un giudizio favorevole nel ministro del Welfare Giuliano Poletti.

E nel Commissario governativo alla riduzione della spesa pubblica Yoram Gutgeld, che tuttavia mette in guardia da facili illusioni per via dei vincoli stringenti di contabilità europea.

Le parole del ministro Poletti

Il governo non taglierà le pensioni. Lo ha detto ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, alla Camera nel question time dove alcuni parlamentari – secondo la ricostruzione del Corriere della Sera – gli hanno chiesto conto delle proposte di intervento, in particolare sulle pensioni di importo elevato, come suggerito per esempio dal presidente dell’Inps, Tito Boeri. “Per quanto concerne la riduzione delle pensioni superiori ai 2 mila euro, che è stata qui citata come una delle opzioni – ha detto Poletti – credo di poter dire in modo molto chiaro che il governo ha espresso chiaramente l’intenzione di non voler procedere in questa direzione, né all’interno della spending review né per quello che riguarda un eventuale intervento sul tema generale della previdenza”.

L’incidenza del calo del PIL e dell’occupazione

Ragionamenti che hanno accompagnato la presentazione, presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, del 2° Rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza” redatto dall’associazione Itinerari previdenziali.

A illustrare i risultati della ricerca i tre economisti di punta del pensatoio.

Tema fondamentale, ha ricordato Paolo Onofri, è il rapporto tra spesa pensionistica, Prodotto interno lordo e tasso di lavoratori attivi. Una dinamica che difficilmente potrà essere proiettata nel futuro con certezza. Tanto più negli anni che stiamo vivendo, in cui abbiamo registrato un crollo del PIL e dell’occupazione.

Un apparente paradosso

Un elemento apparentemente paradossale viene rilevato da Gianni Geroldi: “Gli interventi di riforma promossi a partire dagli anni Novanta riguardo l’età pensionabile e il controllo degli assegni di invalidità hanno frenato il trend delle uscite nel lungo termine. Ma dal 2009 la spesa previdenziale è cresciuta rispetto a una spesa pubblica complessiva che è calata”. La motivazione del fenomeno risiede nel crollo della produzione e dell’occupazione, che ha provocato la contrazione delle entrate contributive.

Panorama complicato per la previdenza dei lavoratori pubblici

È vero che non tutte le categorie di fondi previdenziali si trovano sullo stesso piano. A incidere è il numero dei lavoratori attivi e il rapporto fra reddito medio professionale e assegno pensionistico. Le casse professionali dei lavoratori autonomi, ha ricorda l’economista, registrano un andamento in equilibrio. Per artigiani e commercianti emerge un disavanzo per ora controllabile. Fortemente compromesso è il quadro pensionistico dei dipendenti pubblici. Il prolungato blocco del turn-over, delle assunzioni e dei contratti ha provocato una contrazione della popolazione attiva a fronte delle persone a riposo.

Spesa pensionistica nella media europea

Nel 2012-2013, ha sottolineato il presidente del Comitato tecnico- scientifico di Itinerari Previdenziali Alberto Brambilla, le uscite totali per il Welfare hanno rappresentato il 49 per cento della spesa pubblica complessiva pari a 823 miliardi.

Tuttavia, ha spiegato Brambilla, non è vero che l’Italia spende 3-4 punti percentuali in più per pensioni rispetto al resto d’Europa: “Una parte considerevole delle risorse previdenziali concerne i trattamenti di familiari in condizioni economico-sociali disagiate. Ed è necessario tenere presente che circa 43 miliardi vengono prelevati in forma di tasse dagli assegni di 16milioni 400mila persone a riposo”.

A riprova, ha evidenzia lo studioso, che il regime previdenziale del nostro paese regge: “Servirebbe una strategia tesa a favorire l’assistenza integrativa nel terreno sanitario e pensionistico”.

“Rendere vincolante la previdenza complementare”

Per costruire un Welfare complementare, precisa il parlamentare del Partito socialista e presidente della Commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali Lello Di Gioia, è necessario ragionare di risorse.

Il che richiede a suo giudizio la trasformazione in obbligo degli assegni integrativi per chi lascia il lavoro. E la riduzione del prelievo tributario su quei trattamenti.

“Ridefinire il ruolo di Stato e privato sociale”

Un salto di qualità nel ripensamento dello Stato sociale è stato invocato dal sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta: “L’allungamento dell’attesa di vita e la destrutturazione nel mercato del lavoro produrranno nuovi rapporti tra generazioni e un cambiamento nell’allocazione delle risorse. Con il risultato di provocare un aumento della spesa pubblica”.

È in tale scenario che il parlamentare del Partito democratico esorta a ridefinire il perimetro di intervento riservato allo Stato in rapporto a quello previsto per i privati e il Terzo settore.

“Ragionare su un’uscita flessibile tra 62 e 70 anni”

L’esponente del governo riconosce alle riforme previdenziali realizzate dagli anni Novanta in poi il merito di aver concorso a tenere sotto controllo i conti pubblici. Adesso, è la sua convinzione, non servono più interventi di struttura ma una buona manutenzione.

Per lui la “buona manutenzione” comporta un ragionamento sulla flessibilità in uscita dal lavoro tra i 62 e i 70 anni con 35 anni di anzianità contributiva. Esattamente l’obiettivo perseguito dalla proposta di legge presentata dal presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, che prevede un taglio massimo di 8 punti percentuali nell’eventualità di ritiro a 62 anni. Testo firmato da Baretta “per favorire il ricambio generazionale nel mercato occupazionale e limitare le spese per la cassa integrazione”.

Accanto a tale misura l’ex sindacalista prospetta l’esigenza di creare un percorso previdenziale unico per ricongiungere e capitalizzare tutti i trattamenti ricevuti nel corso della carriera lavorativa, anche in luoghi differenti. E ritiene essenziale costituire una rete efficace di integrazione del reddito tramite un credito di imposta per i fondi e le casse complementari che reinvestono una parte del risparmio nell’economia reale e negli investimenti produttivi.

“Chi lavora in fabbrica merita di andare in pensione prima”

Argomentazioni che trovano profonda consonanza nelle parole di Cesare Damiano: “Finalmente molti tornano a parlare di gradualità nell’età previdenziale. Anch’essi hanno maturato la consapevolezza che la riforma Monti-Fornero ha allargato l’area della povertà e accresciuto il disagio sociale delle persone rimaste prive di reddito anche per 6 anni”.

Per il rappresentante del Nazareno non è giusto “creare fabbriche di settantenni lasciando i loro figli e nipoti al di fuori del circuito produttivo. Mettendo sullo stesso piano professori universitari e primari ospedalieri con gli operai delle catene di montaggio”.

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