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Grecia, come si arrovella Mario Draghi

Chi si ricorda del romanzo di Hans Fallada, pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen “E adesso, pover’uomo?” (titolo originale Kleiner Mann, was nun?), scritto nel 1932 ma diventato popolarissimo grazie a una riduzione televisiva fattane negli Anni Sessanta con il titolo “Tutto da rifare pover’uomo”. E’ un romanzo molto più profondo di quanto non faccia pensare il titolo. Ditzen emigrò in Montenegro durante il nazismo e divenne dopo la guerra una delle penne più apprezzate di Berlino Est, ma morì nel febbraio 1947, prima che il regime, osannato negli Anni Settanta in un saggio di Barbara Spinelli, prendesse la piega che ha portato, prima al Muro e poi al suo crollo.

Mario Draghi, che parla bene il tedesco, farebbe bene a leggerlo in questi giorni in cui si decide il futuro della Grecia, dell’unione monetaria e quindi della Banca centrale europea. La vicenda è quella di un impiegato borghese (un ‘ragiunat’, un contabile, non un banchiere internazionale) negli anni in cui la Germania diventa sempre più povera. A differenza di altri che si disperano e si strappano i capelli, si rifugia tra le rassicuranti mura domestiche. In questi giorni, in cui è in ballo non solo il futuro della Grecia, ma quello dell’unione monetaria se non della stessa Unione Europea (UE), il pover uomo dovrebbe porsi due domande: adesso che si fa? La Bce non ha avuto responsabilità per azioni o per omissioni del pasticciaccio brutto in cui ci troviamo tutti?

Sottolineo tutti perché anche se, come sottolinea con toni rassicuranti il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, non c’è pericolo immediato di contagio, le acque inesplorate di cui parla Draghi sono un pericolo reale per tutti; basta leggere la stampa americana per constatare che anche oltreoceano sono preoccupati di quel che avverrà all’Europa.

Draghi è stato il principale protagonista dei salvataggi’ anche se nel 2009 (quando scoppiò la prima ‘crisi greca’) non aveva ancora la posizione che occupa adesso. Molti dei protagonisti della ‘prima’ crisi greca (quella del 2009) ora sono spariti dai riflettori della scena pubblica. Dall’assunzione della Presidenza della Bce nell’estate 2011, è senza dubbio ad avere il timone del “dramma greco”, in quanto ci sono stati avvicendamenti al Fondo monetario, alla Commissione Europea ed una vera e propria girandola di Governi ad Atene. Quindi, si potrebbe dire che, pur operando sempre con le migliori intenzioni ed avendo come obiettivo primario quello, esplicitato, di “salvare l’unione monetaria e l’euro”, è quello sulle cui spalle gravano più responsabilità della situazione attuale.

Non sapremo che a metà fine settimana come andrà a finire. I presagi, tuttavia, non sono buoni. E’ probabile che la Grecia dovrà lasciare l’eurozona od ottenerne una sospensione temporanea (difficile da organizzare anche sotto il profilo tecnico). Anche gli uffici stessi della Commissione Europea avevano espresso seri dubbi sulla capacità della Grecia di fare parte dell’area dell’euro, ormai è troppo tardi per rinvangare il passato.

Draghi dovrebbe però chiedersi se la caparbietà di “salvare la Grecia” e quella, parallela, di rafforzare un’unione monetaria mal concepita con un’unione bancaria rimasta monca e di cui forse funzionerà solo la vigilanza bancaria della Bce sulle 5500 maggiori banche dell’UE, siano state e siano ancora la strategia migliore. Ogni ora aumenta il rischio che la “questione greca” finisca nel caos di acque inesplorate.

Non sarebbero stati, e non sarebbero ora, più proficui sforzi quelli di rivedere trattati ed accordi intergovernativi nel senso di trovare metodi poco dolorosi e ben organizzati per uscire da unioni monetarie quando non si hanno le condizioni di base per farne parte?

E adesso pover uomo? Draghi dovrebbe chiederselo.

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