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Per usare i ribelli siriani contro l’IS, serve di metterli pure contro Assad

Nelle ultime settimana, i ribelli siriani hanno riportato diverse vittorie contro le forze governative di Damasco: si tratta di situazioni puntuali e di step importanti come quello ultimo a Jisr al Shakhour che si trova nella provincia di Idlib sull’autostrada M4 che porta verso il mare, o di Idlib stessa (grande città del nord conquistata dai ribelli anch’essa). Vittorie che arrivano in zone molto prossime a Latakia, cittadina costiera centro di potere alawita (la setta sciita degli Assad).

Se fin qui Latakia era considerata intoccabile, ora la presa di Jisr (dove in realtà ancora si combatte, ma i ribelli controllano gran parte del territorio) la mette in serio pericolo: perdere Latakia per il regime siriano significherebbe la disfatta, per questo c’è molto fermento tra gli elementi dell’inner circle assadista, che sono in larga parte alawiti, e tra la popolazione locale (la base del consenso presidenziale che ancora crede nel ritorno allo status quo ante 2011), perché capiscono la difficoltà delle situazione.

Allo stesso modo come queste conquiste al nord rappresentano un problema importante per il regime di Damasco, possono rappresentarlo anche per Obama. Non è un segreto che il presidente americano si sia convinto nell’armare i ribelli siriani ─ con una lentezza che non viene soltanto dall’oculatezza sul chi armare, ma dalla riluttanza con cui la Casa Bianca si è sempre approcciata alla questione. Ora il problema è che la forza con cui il raggruppamento che si è formata al nord, Jaysh al Fatah, l’Esercito della Conquista, si sta affermando può essere un’attrattiva per i combattenti ribelli che gli USA vorrebbero addestrare e utilizzare come soldati proxy sul campo. E gli americani non possono certo permettersi di aiutare Jaysh al Fatah, visto che all’interno ci sono fazioni islamiste (la cui declinazione in “jihadiste” è variabile, ma che arriva fino alla rediviva Ahrar al Sham e alla qaedista al Nusra). Jaysh al Fatah non solo è forte, ma è molto coordinata (ci sono segnali, inverificabili finora, sul fatto che dietro ci sia la mano di sauditi e qatarioti, e forse turchi), ben piazzata a livello di propaganda, e non spaventa le folle con esecuzioni pubbliche e video splatter come quelli dell’IS: per questo è ancora più attrattiva.

Il programma di addestramento dei ribelli siriani dovrebbe partire nelle prossime settimane (la data inizialmente era marzo), e si pone l’obiettivo di formare un esercito di 15 mila soldati in tre anni (cinque mila all’anno), pescando tra i combattenti dei gruppi di ribelli moderati come la Divisione 13, la brigata Fursan al Haq, la Faouk Brigade, o la Liwa Ahel al Sham ─ tutte unità che hanno già ricevuto sostegno limitato dal programma analogo ma clandestino che la Cia svolgeva in Giordania.

L’Amministrazione americana ha chiesto al Congresso 500 milioni di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento di questi siriani. Già 143 milioni sono stati spesi per l’acquisto delle attrezzature necessarie, mentre gli altri soldi serviranno per la logistica (il programma si spalmerà su basi in Giordania, Turchia, Arabia Saudita e Qatar e saranno impegnati un totale di un migliaio di advisor militari statunitensi) e per garantire una fonte di sostentamento ai gruppi, una sorta di stipendio, che trasformerebbe ufficialmente ─ insieme al training accelerato americano ─ questi improvvisati combattenti in una specie di professionisti.

L’idea di Obama e dei suoi consulenti, è di utilizzare l’esercito formato nella lotta al Califfato, ma i leader di questi gruppi locali stanno già facendo sapere a Washington che la cosa non regge: non possiamo impegnarci contro il Califfato, dicono questi, senza avere come obiettivo anche il rovesciamento di Assad ─ che poi era la causa del sollevamento popolare e il motivo per cui chi faceva il fornaio o il calzolaio, per dire, ha deciso di prendere un Kalashnikov e di andare a rischiare la vita per liberare la propria terra dal regime, ma Obama sembra dimenticarsene.

Il problema adesso però è anche diplomatico. L’esplosione globale dello Stato islamico, ha configurato agli occhi di qualche occidentale il presidente siriano come un possibile partner nella lotta al terrorismo ─ anche se ufficialmente lo definiscono “unpalatable”, che sta ad indicare le pietanze non troppo gradite. E dagli USA, più o meno velatamente, si è fatto capire che una riqualificazione di Damasco potrebbe essere utile nell’ottica dell’eliminazione del threat-IS. E Assad ha già fatto sapere attraverso un’intervista alla rivista americana Foreign Affairs di qualche tempo fa, che se gli Stati Uniti daranno sostegno ufficiale ai ribelli, lui li considererà nemici da asfaltare ─ parlava dei ribelli, ma sottintendeva anche gli USA per ciò che gli sarà possibile.

Dunque: se si aiutano i ribelli e si mettono a combattere sul campo soltanto contro l’IS, ammesso che questi siano fedeli (cosa complicata dalla narrazione potente che arriva da situazioni come quella di Idlib), si rischia che finiscano in mezzo al fuoco doppio del Califfo e di Assad, che vedrebbe il tutto come un’occasione propizia per eliminare molte delle forze moderate che sono ciò che resta di potabile nella situazione siriana. Se ai ribelli aiutati gli si dà come obiettivo non solo l’IS ma anche il regime, la possibilità di una soluzione politica della guerra via Damasco e di una collaborazione futura contro il terrorismo dello Stato islamico viene meno ─ e per altro, qui c’è pure la variabile Iran, da poco tornato ufficiosamente al tavolo dei buoni con il deal sul nucleare: Teheran essendo alleato storico di Assad potrebbe indispettirsi (diciamolo così, con un eufemismo, visto che qualche giorno fa, dopo che se l’era presa dell’eccessivo coinvolgimento degli americani nella crisi in Yemen, ha risposto inviando una decina di navi da guerra sul golfo di Aden).

@danemblog

(Foto: Khalil Ashawl/Reuters)

 

 

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