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L’America traccheggia in Siria, gli alleati mediorientali no

Gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente hanno aumentato il loro sostegno ai gruppi ribelli siriani negli ultimi mesi, circostanza che apparentemente ampia il divario tra le posizioni di questi Paesi e quelle dell’Amministrazione americana.

La Casa Bianca, dopo un lungo periodo di riluttanza, si è convinta a sostenere più o meno ufficialmente (finora c’era un programma clandestino della Cia) alcuni gruppi di ribelli moderati, ma lo scetticismo che accompagna la decisione, rallenta le operazioni ─ una prima fase di training doveva partire in marzo, ma ancora non è operativa. Soprattutto, molti dei ribelli sul campo hanno dubbi sul cardine fondativo dell’iniziativa pensata da Washington: “i gruppi combattenti siriani devono essere il nostro esercito a terra contro lo Stato islamico”. Ma ci si dimentica che la ragione per cui quei civili si sono messi in armi quattro anni fa, non era sconfiggere il Califfo (che non era nemmeno una realtà esistente allora), ma di rovesciare il dittatoriale governo del presidente Bashar al Assad. E dunque, quanto meno, la missione dovrebbe avere entrambi gli obiettivi.

La caduta di Assad, è anche il punto focale nell’interesse di quegli stati che in questo momento sembra stiano sostenendo i ribelli con maggior vigore. Secondo quanto scritto da Liz Sly sul Washington Post, dietro ai recenti progressi delle forze ribelli nel nord della Siria ─ quelle legate alla coalizione di gruppi che va sotto il nome di Jaysh al Fatah, l’Esercito della Conquista ─ ci sarebbero gli aiuti militari e finanziari forniti da Turchia, Qatar e Arabia Saudita. I sauditi sono molto attivi in questi periodi, vedi lo Yemen, cercando di configurarsi definitivamente come potenza di riferimento regionale ─ e sottolineando la distanza dal nemico esistenziale iraniano, che è alleato di Assad e degli houthi yemeniti, e che ha fatto un accordo di “riqualificazione” con gli USA che non va proprio giù a Riad. Pure la Turchia, che ha sempre mantenuto un canale aperto con le opposizioni siriane (di vario genere), si trova adesso a dover prendere una posizione netta: lo Stato islamico è diventato un problema di sicurezza interna, con la diffusione continua di materiale propagandistico e con la presenza di un sottobosco operativo che sfrutta il territorio di Ankara per diversi tipi di traffici, circostanza che fin qui è stata anche quasi tollerata, ma che ora sta diventando problematica per le sue dimensioni ─ e dunque è arrivato il momento di scegliersi chi aiutare. E anche il Qatar è uno di quei paesi del Golfo che non ha mai celato il sostegno ai ribelli siriani, anche con finanziamenti ambigui a gruppi islamisti radicali.

L’occasione è propizia: il regime siriano è vittima delle liti tra papaveri della nomenklatura, sembra vacillare, e inizia a perdere colpi anche militarmente ─ ma, come ricorda un funzionario americano americano al WaPo, piano a giungere alle conclusioni, perché pochi mesi fa, si sosteneva che Assad stava diventando sempre più forte: la situazione è fluida, e le cose cambiano in fretta.

Il nuovo approccio dei tre alleati mediorientali dell’Occidente, potrebbe minare tre anni di politica americana in Siria. Obama è concentrato su una soluzione negoziata con Assad ─ l’idea parte da lontano, da quando la Casa Bianca decise di non attaccare Damasco dopo i bombardamenti al sarin ordinati dal governo al quartiere di Goutha, e di avviare il piano per lo smaltimento delle armi chimiche suggerito dalla Russia. (Ancora una volta, però, in questa risoluzione politica della guerra, ci si dimentica che qualsiasi sia il compromesso raggiungibile con il governo siriano, non è abbastanza per segnare la vittoria netta che le opposizioni vogliono ─ cioè, la caduta definitiva del regime).

La principale delle remore che blocca (da sempre) l’amministrazione Obama nel fornire armi ai ribelli, è la presenza tra questi di forze radicalizzate e jihadiste. Il ruolo della Jabhat al Nusra, affiliazione siriana di al Qaeda, è stato determinante nelle vittorie riportate al nord dall’Esercito della Conquista (la presa di Idlib e Jisr al Shakhour e l’apertura per la via del mare e per Latakia, il centro di potere presidenziale). Se per Turchia, Qatar e Arabia, la questione può mantenere comunque degli estremi di sostenibilità, per gli Stati Uniti non è assolutamente potabile.

Secondo alcuni esperti, tuttavia, Washington dovrebbe iniziare a rischiare di più, pena perdere qualsiasi tipo di rilevanza in Siria. Attualmente, i pochi armamenti statunitensi che arrivano ai ribelli, seguono un attento protocollo: ci sono centri operativi in Giordania, Turchia e Arabia Saudita, dove i funzionari di intelligence locali coordinati con gli americani segnano le forze combattenti anti-Assad con diversi colori. Verde vuol dire che possono ricevere armi, rosso “no assolutamente”, mentre quelli in giallo richiedono analisi più approfondite. È realistico pensare che i bollini gialli siano la gran parte, visto che arrivati sul campo i gruppi ribelli assumo dinamiche del tutto diverse dagli intenti di partenza: non è casuale, per esempio, vedere entità più moderate allearsi con i qaedisti per ottenere più potenza di fuoco durante qualche battaglia. E in questa giungla ─ che inevitabilmente è la guerra ─ si sono viste armi su cui gli americani avevano dato via libera, finire in mano ai gruppi islamisti radicali.

C’è però anche un filone di analisti che crede che quello che sta succedendo non è altro che un’operazione controllata dagli Stati Uniti con un ruolo dal background. Si dice che è impossibile che l’America non sappia che i suoi alleati stanno fornendo più armamenti (molte delle quali sono proprio americane) ai ribelli siriani. Il passaggio attraverso i partner mediorientali, allora, eviterebbe ad Obama di sporcarsi le mani e di avere la coscienza pragmaticamente a posto su future deviazioni prese da quelle armi.

@danemblog

 

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