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Pensioni, cosa faremo dopo la sentenza della Corte Costituzionale

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il 30 aprile scorso è stata depositata la sentenza n° 70/2015 con la quale la Corte Costituzionale ha bocciato il blocco della perequazione per tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo INPS (1.405 € lordi mensili dell’epoca) per gli anni 2012/2013 deciso dal governo Monti con la cosiddetta manovra “Salva Italia” imposta dalla Troika e che, visti i risultati, possiamo definire senza tema di smentite “Ammazza Italia”.

Si tratta di una vittoria di “tappa” (il Giro ancora non è finito) da ascrivere alla Federspev e a tutte le altre organizzazioni sindacali che in questi anni hanno con veemenza (ricordo a tutti la nostra manifestazione dei bastoni) reagito ai numerosissimi soprusi cui sono stati sottoposti i pensionati, considerati dalla politica “tutta” un vero e proprio bancomat in funzione dei bisogni economici dello Stato.

La censura è stata promossa dal tribunale del lavoro di Palermo, dalla Corte dei Conti di Emilia Romagna e Liguria essenzialmente su due motivazioni:

1) la presunta natura tributaria della misura (non accolta) perché la Corte sostiene “viene a mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa”.

2) Violazione (accolta) dei principi di proporzionalità e adeguatezza inerenti gli artt. 36 1° c. e 38 2° c. della Costituzione.

La Consulta ritiene che il legislatore sia andato oltre la discrezionalità che gli è consentita nella scelta del meccanismo di perequazione delle pensioni “con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività”. In particolare il blocco biennale della perequazione ha negato ai pensionati il loro legittimo interesse “teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale una prestazione previdenziale adeguata”.

Va disapplicata, quindi, la norma relativa all’art.24 c.25 della legge 214/2011 ed applicata la norma preesistente (legge 338/2000 art.69) che riconosce, relativamente alla perequazione, un aumento pieno (100 %) per le pensioni fino a 3 volte il minimo INPS, aumento al 90% per quelle comprese fra 3 e 5 volte il minimo e al 75% per quelle oltre 5 volte il minimo.

L’effetto sui conti pubblici è pesantissimo. Secondo l’Avvocatura dello Stato si aggirerebbe sui 5 miliardi, ma è una cifra sottostimata. Infatti in base ai dati INPS la mancata perequazione ha fatto risparmiare almeno 6 miliardi nei due anni 2012 e 2013, a cui va aggiunto l’effetto trascinamento per gli anni successivi per cui il conto potrebbe ammontare a 9/10 miliardi da restituire a circa 6 milioni di pensionati aventi diritto.

Secondo notizie di stampa i giudici hanno “animatamente” discusso e la decisione è passata con 1 solo voto di maggioranza (quello del Presidente). Tra i contrari anche il pluripensionato (32.000 € mensili + 30.000 € di stipendio da giudice) Giuliano Amato, autore nel 1992 dell’incursione nottetempo nei nostri conti correnti bancari e della riforma della previdenza che, fra le altre chicche, prevedeva l’eliminazione dell’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale.

La Corte era già intervenuta in materia di perequazione con la sentenza 316/2010, ma in quella occasione il blocco, che riguardava le pensioni 8 volte il minimo INPS, aveva superato il vaglio di Costituzionalità nel senso che trattandosi di importo piuttosto elevato le pensioni presentavano “margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”. Ammonendo, però, nel contempo, il legislatore a non più reiterare tali blocchi.

Altrettanto non può dirsi per la manovra 2012/2013. Il blocco delle pensioni superiori a 3 volte il minimo INPS mina il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata nei confronti di quei titolari di pensione modesta intaccando i diritti fondamentali di cui agli artt. 36 e 38 della Costituzione. La pensione è, infatti, intesa quale retribuzione differita in un quadro di solidarietà.

I recuperi potranno andare dai 4.700 € circa per le pensioni 4 volte il minimo INPS ai 10.000 € per le pensioni 10 volte il minimo (dati Sole 24 ore). Mi sorge, quindi, spontanea una domanda: cosa farà il governo?

Molti suoi esponenti hanno già risposto che la sentenza andrà rispettata ad eccezione di qualcuno (vedi il sottosegretario all’Economia Zanetti) che ha espresso qualche perplessità. Tacciono per ora i big da Renzi a Padoan, da Poletti a Gutgeld.

Sarà l’effetto delle prossime elezioni regionali?

Il governo sicuramente cercherà di limitare i danni con vari accorgimenti: potrebbe per esempio ricalcolare le pensioni con gli adeguamenti bloccati nel 2012/13 e rimborsare a rate gli arretrati.

Potrebbe, sostiene l’esperto Giuliano Cazzola, ”disporre una rimodulazione del blocco facendolo restare solo sulle pensioni più elevate visto che la Corte ha bocciato la misura proprio perché colpiva quelle modeste”. Oppure, con un decreto legge, potrebbe decidere per un rimborso a rate e solo per le pensioni più basse.

Chiaramente si aprirebbe un nuovo contenzioso con i titolari delle pensioni più elevate. Ma, intanto, trascorrerebbero anni e non è detto (pensano questi “signori”) che la Consulta di fronte a penalizzazioni delle pensioni più elevate boccerebbe il provvedimento. Infatti questa stessa sentenza ricorda che la Consulta non ha abrogato precedenti blocchi quando hanno riguardato pensioni superiori a 5 volte il minimo INPS ( finanziaria Prodi 1998) o 8 volte il minimo (Finanziaria Berlusconi 2007).

Noi, comunque, continueremo a stare vigili.

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