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Buona Scuola, ecco (smontate) le bufale sul preside-dittatore

La strategia mediatica di contrapposizione al Ddl scuola si è sbizzarrita sulla norma riguardante i presidi. Come? Affibbiando a questi dirigenti pubblici i nomi di tutt’altri mestieri, “come se non avessimo un’identità propria e dovessimo essere definiti ricorrendo a categorie come sindaco, manager, amministratore delegato o addirittura sceriffo”, dice Giorgio Rembado, ex dirigente scolastico in Liguria e oggi presidente dell’Associazione nazionale presidi.

DOPO 18 ANNI SI CHIUDE IL CERCHIO

Al professor Rembado il contestato articolo 9 del Ddl scuola approvato lunedì alla Camera con 214 sì e 100 no (11 astenuti) piace abbastanza, anche se “è stato un po’ edulcorato nei vari passaggi parlamentari a partire dalla discussione in settimana Commissione”. La norma, spiega infatti a Formiche.net, “prevede di ricostruire quegli strumenti gestionali riconducibili alla qualifica dirigenziale non previsti nella legge del 1997 entrata in vigore nel 2000”. Il Ddl, quindi, “si è proposto di definire una volta per tutte una figura dirigenziale con i requisiti essenziali per lo svolgimento del lavoro e l’assolvimento delle sue responsabilità”. In sostanza, se alla fine degli anni ’90 lo Stato aveva riconosciuto la qualifica, ecco che adesso prova a riempirla di contenuti attribuendogli le necessarie funzioni.

L’OFFENSIVA MEDIATICA

Tuttavia, appena il governo ha detto di voler mettere mano al ruolo dei presidi, si è scatenato il finimondo, con i sindacati della scuola pronti a dare battaglia, una mobilitazione culminata nello sciopero del 5 maggio. “Il mondo sindacale e non solo – continua Rembado – ha cercato di affiancare altri nomi evocativi a quello del preside, sia per ricorrere a figure forti come quella dello sceriffo per dargli un’altra identità di cui non abbiamo certo bisogno, sia per irriderne la funzione e paventare presunti rischi di clientele e nepotismo”. Da qui l’approvazione dell’emendamento dei 5 Stelle per evitare possibili conflitti di interesse dei presidi e possibili collegamenti (anche di parentela) con i docenti iscritti negli ambiti territoriali.

DISTINZIONE DEI RUOLI

“In un complesso strutturato come quello di una singola e autonoma scuola, competenze e poteri devono essere attribuiti a seconda delle responsabilità – dice l’ex preside -. La norma approvata consente la necessaria distinzione dei ruoli, anche se non la declama apertis verbis proprio in virtù dei passaggi in commissione nei quali sono stati inseriti continui riferimenti agli organi collegiali della scuola per cercare di bilanciare i poteri del dirigente”. A partire dalla valutazione, per la quale occorre infatti il parere del comitato composto da docenti, genitori e studenti. “Ma il riconoscimento della funzione dirigenziale non è venuto meno, e questo è un aspetto positivo” si consola il presidente dell’Anp.

COSA POTRANNO FARE I PRESIDI

Tre cose, sostanzialmente. “Innanzitutto quella che viene impropriamente definita ‘chiamata dei docenti’ – continua Rembado – che consiste nell’individuazione dei docenti all’interno degli albi territoriali. Si parla quindi di persone già in attività di servizio e con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il dirigente individua il profilo professionale (o i profili) che meglio corrisponde al Piano di offerta formativa (Pof) della sua scuola e chiama il docente per un incarico triennale rinnovabile”. Cosa cambia rispetto a prima? “La chiamata può avvenire tramite l’individuazione da parte del dirigente oppure tramite domanda dello stesso docente – risponde Rembado -. Si dovrà tenere conto del curriculum, quindi delle esperienze professionali svolte e delle competenze acquisite, sia attraverso una fase di lettura dei documenti che attraverso un dialogo, anche se non si può parlare di un vero e proprio colloquio perché il docente ha già un rapporto di lavoro precedentemente costituito”. Oltre a questo, al preside toccherà anche la valutazione del docente, “e non solo dopo l’anno di prova”, quindi una certa discrezionalità sulla premialità, “tutti elementi nuovi e assolutamente necessari, un primo passo verso una direzione giusta anche se l’importo complessivo di 200 milioni di euro per i premi è troppo basso”i.

GUAI A CHI TOCCA LA SCUOLA

Perché ogni volta che un governo di qualsiasi colore politico tenta di mettere mano alla scuola inserendo elementi di merito, valutazione e premialità si scatena una sollevazione? Rembado ha le idee molto chiare al riguardo. “Ci sono ragioni storiche e di retaggio culturali difficili da superare; nella scuola c’è un rifiuto verso ogni forma di valutazione dei docenti, restano pregiudizi ideologici dettati anche dalla paura che portano a negare la premialità in forza di un trattamento egualitaristico che ha portato ad appiattimenti retributivi e all’inesistenza delle carriere per l’irrealistica idea che tutti i docenti siano uguali”. Motivo per cui, “se nella scuola le differenziazioni retributive sono esclusivamente legate agli scatti di anzianità (e quindi senza alcun riferimento al merito, ndr), lo si deve a questo egualitarismo assoluto”.

LE RESPONSABILITA’ DEL SINDACATO

In quest’ottica, “non è tanto il sindacato in sé il problema – conclude Rembado – quanto un certo modo di fare sindacato, una forma di sindacato che non ha saputo aggiornarsi, rimanendo legata a vecchi miti. Negli anni ’70 le uniche differenziazioni per i docenti erano dovute alle diverse fasce di scolarità e sono state travolte; oggi quindi siamo rimasti alla cultura di 40 anni fa. Nei fatti il sindacato italiano della scuola non ha avuto il coraggio di accettare la valutazione, la premialità, il merito e l’introduzione di vere e proprie carriere per i docenti”.

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