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Come salvare la traballante sanità pubblica italiana

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

A parte le previsioni un po’ troppo rosee, in fondo, dell’Ocse, l’Italia dovrebbe crescere il suo Pil di uno 0,4% per quest’anno e di un + 1,3% nel 2016. Sempre sul piano macroeconomico, la succitata organizzazione internazionale prevede un tasso di disoccupazione al 12,3% quest’anno e all’11,8% il prossimo. Come si possa avere un prodotto interno lordo in crescita con una base produttiva così esigua, se vediamo il tasso di disoccupazione, e quanto di converso debba essere il tasso di produttività medio di coloro che sono occupati, è un vero mistero gaudioso, ma non siamo esperti di teologia economica.

La produttività italiana è ai minimi da oltre quindici anni, lo segnalano tutti gli indicatori indipendenti, e meglio di noi fanno, in questo settore, perfino Portogallo e Spagna.
Né c’è molto da sperare, ma è intanto una boccata d’aria, nemmeno dal “Jobs Act” che non mostra, a parte alcune conversioni di lavori a tempo determinato in indeterminato, di essere quel traino all’occupazione che speravamo tutti. Il malato è cronicizzato, visto che parleremo qui di salute e economia, e poco fanno le vecchie ricette.

La spesa sanitaria, con i dati ultimi del 2012, risulta essere minore rispetto a quella degli altri Paesi Ue, di area Euro o esterni alla moneta unica.
In Italia spendiamo 2500 Usd a cittadino per la salute ogni 365 giorni, mentre la media dei nostri collegi-concorrenti europei è di circa 3 mila dollari l’anno. Strano? No. Tra il 2012 e il 2015 sono stati apportati tagli alla sanità pubblica, tra legge di stabilità 2013, spending review o quello che ne è rimasto, DL 98/2011, Decreto legge 78/2015 per 24,726 miliardi di euro.
Nel 2012 la spesa sanitaria era il 7,1% del Pil (110.842 miliardi di euro) nel 2015 è prevista per 115,24 miliardi di euro, ovvero il 7,0% del Pil, ma nel 2016 e nel 2017 la spesa sanitaria è prevista rispettivamente di 117.616 miliardi di euro (6,8% del Pil) e di 119.789 miliardi di euro, che sono il 6,7% del Pil previsto.

Il finanziamento statale del Servizio Sanitario Nazionale, per il 2014 è stato di 109.928.000.000, evidentemente meno di quanto occorra, con il resto generato dai contributi privati (i ticket per le prestazioni, i finanziamenti degli enti benefici, i trasferimenti degli Enti locali) ma, in ogni caso, l’incidenza della spesa sanitaria tra il 2015 e il 2018 crescerà inevitabilmente ad un tasso medio annuo del 2,1% per evidenti motivi: aumento dell’età media, presenza di immigrazione di massa con i relativi problemi sanitari, aumento delle malattie rare e delle allergie, tra i tanti settori della spesa pubblica Ssn in espansione.

Ma, lo abbiamo visto, l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil sarà sempre minore, e questo almeno fino al 2020.
Il ministro Beatrice Lorenzin parla, poi, di risparmi prefissati per la spesa Ssn di 900 milioni di euro entro la fine di quest’anno.
In sostanza, dobbiamo porci la domanda-chiave: è sostenibile ancora il nostro Ssn e per quanto tempo?
Le indagini sui consumi alimentari eseguite dalle grandi catene di supermercati attive in Italia ci disegnano un quadro desolante, con una contrazione dei consumi più “sani” (e costosi) e un aumento inevitabile, data la crisi economica che persiste, del junk-food familiare, con effetti sulla salute che è facile immaginare.

Da cosa deriva la crisi di sostenibilità del Ssn? Da molti fattori, evidentemente, ma concentriamoci su alcuni: è cambiato il panorama demografico, e i vecchi consumano, per ovvi motivi, più medicine e ricoveri ospedalieri dei giovani.
Dalla crisi fiscale dello Stato, che non può non riflettersi, come abbiamo visto, nella spesa sanitaria.
Dall’eccesso, poi, di intermediazione politica: Stato, Regioni (e la modifica ultima del Titolo V della Costituzione è stato un cespite di spesa sanitaria locale) e enti locali diversi, oltre ad uno strano rapporto tra Privato e Pubblico per il quale il Privato viene pagato dal Pubblico con i risparmi della spesa nel comparto sanitario pubblico, appunto.

Pietro Nenni lo diceva spesso: “privatizzare i profitti, pubblicizzare le perdite”. Inoltre, non c’è una analisi razionale degli effetti di tanti farmaci “nuovi”, che paiono spesso essere repliche di quelli vecchi, ma a prezzo maggiorato.
Troppe analisi, spesso inutili, troppo poche valutazioni mediche approfondite, tanti esperti sanitari preferiscono far andare subito dallo “specialista”, con costi elevati per lo Stato e, anche, per il paziente.

Per non parlare della varietà dei costi interni: il parto cesareo che oscilla dal 3% al 91% dei casi, a seconda delle Regioni interessate, con evidenti ricadute sui costi Ssn locali, che lo Stato trasferisce ancora con criteri “a piè di lista”, operazioni al femore compiute nell’1% dei casi o nel 95% dei malati. C’è da sospettare, e molto.
128 strutture effettuano meno di 500 parti l’anno, e anche qui c’è da potare, con severità, anche se si tratta di intaccare il nesso tra politica locale e potere sanitario.
Quindi, si tratta non di “delegare” o, peggio, decentrare ancora, ma di far sentire a chi spende in periferia, Regioni e Enti Locali, la mano dura e rapida dello Stato Centrale.

Il calcolo degli sprechi nel Ssn è già stato autorevolmente compiuto: sovrautilizzo di interventi sanitari, per il 26%, frodi e abusi veri e propri, e siamo al 21%, tecnologie acquistate a costi eccessivi e evidentemente “fuori mercato”, per motivi spesso collegati ai rapporti con il mondo politico, e qui siamo al 19%, sottoutilizzo degli interventi sanitari efficaci, che magari non vengono implementati, 12%, costo della macchina amministrativa troppo e inutilmente complessa, un altro 12%, infine i costi derivanti da un inadeguato coordinamento dell’assistenza, che valgono il 10% del totale degli sprechi.
Quindi, oltre il 20% della spesa sanitaria se ne va in fumo tra sovracosti inutili, mancanza di coordinamento, interventi inutili, farmaci distribuiti irrazionalmente.
Troppo, davvero.

E quindi, in sostanza, ricentralizzare la spesa, distribuire i costi a seconda della spesa reale media del più basso fornitore, altrimenti si costruisce lo stesso criterio di programmazione a costi fittizi che ha fatto crollare l’Urss, diminuire i trasferimenti alle Private, che possono spesso chiedere di più ai loro clienti-pazienti, responsabilizzare (e punire) i medici e i dirigenti sanitari.

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