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Shark tank, é una buona notizia

Vediamo quale può essere stato il ragionamento. Se la cucina è diventata moda ed è finita come la besciamella, impazzita, completamente fuori di senno, con uomini e donne che non vedono l’ora di indossare un grembiule e mettersi ai fornelli, seguire corsi di cucina, acquistare strumenti per misurare la temperatura interna del cosciotto che cuoce a bassa temperatura, chissà – si saranno detti gli organizzatori – che a furia di parlare d’idee d’impresa e di business plan a questo paese, abituato a farsi ingrassare dai soldi dello Stato e depositarli sotto o nel mattone, non venga d’un tratto il piglio dell’imprenditore con tanto di propensione al rischio.
Che sia stato questo il ragionamento non possiamo saperlo. Certo è, però, che Shark Tank, il format che vuole una serie di aspiranti neo-imprenditori giocarsi le proprie carte di fronte a cinque uomini d’affari, è sempre meglio di Masterchef.
Lo spirito del tempo è un mulinello che come lo sciacquone trascina tutto. Questi format, a forma di talent, aumentando di numero e invadendo ogni ambito possibile, rischiano di tramutarsi in un indistinto rumore di fondo indistinguibile. Così è.
Tuttavia, Shark Tank ha del buono. Gli aspiranti neo imprenditori, almeno quelli visti nella prima puntata, sono in quella fase in cui sono ancora inventori di qualche cosa. E sono costretti, nel rispetto dei tempi televisivi, a svolgere quello che gli anglosassoni chiamano elevator pitch. Ovvero devono raccontare, nel modo più persuasivo possibile, la propria idea di business, il perché la loro invenzione dovrebbe essere migliore dei prodotti sostituti concorrenti, e di come saranno in grado di far quattrini senza che la loro idea sia facilmente copiata. Il tutto, in pochi minuti.
Ed è dunque interessantissimo assistere a questa carrellata d’idee così diverse l’una dall’altra. Ora di tipo tecnologico, ora sul sociale. Idee di prodotto o di servizio. Che sono destinate ai settori più disparati e lontani tra loro: entertainment, automotive, food. Perché, come amava ripetere Carlo Maria Cipolla, i quattrini si fanno con le cose belle e semplici che piacciono a tanti. E ci vuole proprio uno spaccato di creatività che, trasversalmente, percorre la vita quotidiana per provare a cambiarla e cambiarci generando profitti.
E poi c’è un fatto. Quando ogni imprenditore finisce di illustrare il suo progetto, ed è lì che fa la sua richiesta in cui indica il valore dell’investimento atteso a fronte di una percentuale del capitale sociale della propria società – il più delle volte “costituenda” -, c’è un momento di attesa. Secondi, di sospensione. Pochi istanti che corrono come un brivido dando vertigine. Perché, badate bene, chi è lì per chiedere, è al termine di un percorso, lungo e difficile, in cui ha provato a scoprire un qualcosa. L’ha inventato, sperimentato, testato, verificato, analizzato. Ha fatto di quell’idea, che è stata un pallino, una passione, un tormento, una cosa che gli ha mangiato la testa. Un’idea che si è avvinghiata con la sua vita stessa. E adesso, siccome non ha le risorse sufficienti, finanziarie ma non solo, in alcuni casi possono essere necessità logistiche e organizzative, di distribuzione, per sviluppare il potenziale di quell’idea che ritiene promettente, è disposto a mettersi davanti alle telecamere al cospetto di alcuni potenziali investitori che non si è scelto e di cui non conosce completamente il percorso, di cui non dispone della visura camerale. Per farcela.
Durante quel momento di sospensione, prima che ciascuno dei potenziali investitori esprima il suo intendimento, i telespettatori a casa si dividono un po’ come il mercato.
C’è chi si entusiasma per tutto ciò che è novità. Gli inglesi, che sanno chiamare le cose in modo che suonino meglio, definiscono questo tipo di persone gli early adapters. Ecco, il numero di business plan che finisce male a causa dei ricavi basati sugli early adapters non si contano.
Poi ci sono quelli che non darebbero un centesimo a nessuno. E che ripetono alla fine di ogni presentazione che si tratta di minchiate. Questo tipo di persone vedono subito il problema, il rischio. Fosse per loro, neanche la ruota avrebbero inventato. Avremmo dovuto avere prima freno a disco e allora forse i tempi sarebbero stati maturi per un loro investimento nella ruota.
C’è chi invece, quasi in ragione di un naturale rispetto nei confronti di questi neo-imprenditori che si stanno mettendo in discussione, attende curioso il giudizio da parte degli uomini d’affari. E si chiede come possono decidere di investire somme così importanti – si tratta di alcune centinaia di migliaia di euro -, in così pochi minuti. Senza che la loro analisi abbia avuto il tempo di analizzare report, fogli di calcolo. Ecco, non c’è da meravigliarsi: accade proprio così. Tant’é.

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