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Perché Assad si concentra sui ribelli e non sull’Isis. Parla Dottori

Nonostante un’ampia coalizione internazionale a combatterlo, lo Stato Islamico continua a erodere terreno tanto in Iraq quanto in Siria. Una situazione anomala, che molti analisti addebitano a una serie di peculiari coincidenze. Si va dal tentativo di Assad di preservare il suo regime fino al malfunzionamento e alla corruzione dell’esercito di Baghdad, passando per i nodi irrisolti del negoziato sul nucleare iraniano e la contrapposizione secolare tra sunniti e sciiti.

Quanto incide tutto ciò sull’avanzata dei drappi neri? E quali gli aspetti più rilevanti della strategia occidentale contro il Califfato?

Ecco alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss e curatore del rapporto “Nomos e Kaos” di Nomisma.

In cosa differisce l’attuale campagna anti Isis rispetto a quelle passate in Medio Oriente?

Da settembre ad oggi, la coalizione che combatte contro il sedicente Stato Islamico ha condotto 4mila e 100 missioni aeree offensive. Si tratta di una ventina di incursioni al giorno su un teatro molto ampio e dispersivo, cifra che è paragonabile a quella del blando impegno Nato contro la Libia, campagna che certamente non è passata alla storia come una fra le più energiche. A titolo di confronto, è utile ricordare che gli aerei della stessa Alleanza Atlantica effettuarono oltre 38mila sortite nei due mesi che la videro impegnata contro la Jugoslavia di Slobodan Milosevic per il Kosovo. Non parliamo poi di Desert Storm: in cinque settimane, gli alleati promossero più di 100mila attacchi aerei, scaricando sull’Iraq di Saddam quasi 90mila tonnellate di esplosivi.

Perché questa strategia?

Credo che nel momento in cui si accinge a reintegrare l’Iran nella comunità internazionale, l’America voglia inserire un cuscinetto sunnita militarmente solido tra Teheran ed il Mediterraneo. Gli iraniani, a quanto ho potuto personalmente constatare a Bucarest la scorsa settimana, durante un convegno sul terrorismo ed il Medio Oriente, ne sono convinti. Pensano che li si voglia tener lontani dalla Palestina. Hanno ragione solo in parte: perché ciò che gli Stati Uniti vogliono veramente è un equilibrio di potenza.

Ha parlato di negoziato sul nucleare iraniano. Che novità arrivano da Parigi?

Poiché in queste situazioni incancrenite la diplomazia segreta opera più efficacemente di quella alla luce del sole, è presumibile che il vero negoziato si svolga altrove e verta sulle condizioni e le garanzie che gli arabi vogliono per accettare la riconciliazione tra Stati Uniti ed Iran. Inoltre, se davvero si voleva definire a Parigi una strategia più incisiva sul piano terrestre, a mio avviso è stato un errore non invitare al tavolo anche il governo di Damasco, i Peshmerga curdi e l’Iran: ovvero, gli attori che mettono gli stivali sul terreno.

Quanto incide invece la divisione tra sunniti e sciiti nell’avanzata dei drappi neri?

Il sedicente Stato Islamico cavalca questa frattura, perseguendo una specie di pulizia confessionale nelle aree che lo interessano, anche dentro l’Arabia Saudita. Ma proprio questa frattura, alla fine, potrebbe determinare i limiti delle sue effettive possibilità di espansione. Non vedo in che modo i miliziani del Califfato possano infatti pensare seriamente di sottomettere l’Iraq sciita, anche se sono comandati da alcuni dei migliori e più scaltri generali di Saddam.

I jihadisti dell’Isis, nel frattempo, avanzano verso Aleppo. Ad aiutarli ci sarebbero proprio i bombardamenti del regime di Bashar al-Assad sui ribelli, che combattono gli uomini di al-Baghdadi. Perché un atteggiamento così apparentemente autolesionista da parte del dittatore siriano?

Non è detto che le cose stiano veramente così. Il regime, in effetti, sta cercando di contenere i ribelli sostenuti apertamente da sauditi, Qatar e Turchia, concentrandosi su di loro perché rappresentano la minaccia più credibile alla sua sopravvivenza. È probabile che a Damasco abbiano anche capito che la comunità internazionale non può accettare una conquista dell’intera Siria da parte del Califfato.

Questo in cosa si traduce?

Mi sembra che Assad si stia focalizzando sugli avversari che deve per forza affrontare da solo. Lasciando invece agli alleati il compito di contenere lo Stato Islamico, opportunamente ritratto come una minaccia globale. Si tratta in fondo di un’applicazione del classico principio strategico dell’economia delle forze. I successi del sedicente Stato Islamico potrebbero inoltre servire anche a sollecitare nuovi aiuti da parte della Russia.

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