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Italia, fisco e banche. Perché c’è ben poco da festeggiare

Serve un Piano A: l’economia italiana galleggia appena e non crescerà neppure l’anno prossimo. Non è stato affrontato tempestivamente il problema del debito pubblico eccessivo, e da mesi, si continua a mettere sotto il tappeto anche la questione dei crediti bancari ammalorati. A Bruxelles diciamo sempre di sì: abbiamo accettato ad occhi chiusi una direttiva sulla soluzione delle crisi bancarie che impone sacrifici agli azionisti ed ai depositanti ed ora non sappiamo come fare per dar vita ad una Bad bank con garanzie pubbliche: tra crediti in sofferenza, scaduti e ristrutturati siamo a 300 miliardi di euro, una cifra pari al 20% del Pil.

Questi sono i costi di due recessioni consecutive, la prima (2009-2010) determinata dalla crisi finanziaria internazionale e la seconda (2012-2014) provocata dalle misure di rigore adottate a partire dal 2011.

Bisogna smetterla di prenderci in giro: nel 2016, tra sei mesi appena, l’economia italiana dovrà subire una ulteriore manovra correttiva: la pressione fiscale aumenterà, passando dal 43,5% di quest’anno al 44,1% sia nel 2016 che nel 2017, per via delle clausole di salvaguardia già approvate con la Legge di Stabilità per il 2015. Che siano addirittura 50 o appena 5 i tavoli di lavoro impegnati nella spending rewiew, il dato non cambia: o scattano gli aumenti dell’IVA o si tagliano le detrazioni e le deduzioni fiscali vigenti.

Per il 2016, nel Def si stimano già maggiori entrate per 29,3 miliardi di euro. Nel 2017 ci sono ulteriori entrate per 16,9 miliardi, ed infine un altro incremento di 11,5 miliardi nel 2018. Cumulati in tre anni, ci sono oltre 130 miliardi di tasse in più da pagare: una cifra che a solo pronunciarla fa accapponare la pelle, visto che si drena una somma esattamente pari al doppio della liquidità aggiuntiva che verrebbe immessa in Italia con il Qe con l’orizzonte al settembre 2016.

Per arrivare al pareggio di bilancio nel 2018, si fanno le solite acrobazie: il saldo primario, che quest’anno sarà pari all’1,7% del Pil, nel 2018 dovrebbe quasi triplicarsi, arrivando al 4,3%. Per trovare percentuali analoghe, eccezionali, dobbiamo tornare indietro al triennio 1998-2000, ed alle tasse straordinarie imposte per aderire all’euro: una citazione niente affatto casuale. Paiono numeri davvero campati in aria: il Def del Governo Monti, approvato nell’aprile 2012, prevedeva per il 2015 un saldo primario pari al 5,7% del Pil. Arriveremo appena all’1,7%, 4 punti in meno, dopo essere passati per revisioni continue al ribasso, un Def dopo l’altro.

Siamo di fronte ad una strategia di politica economica doppiamente fallimentare: da una parte, non coglie i nuovi nessi tra politica di bilancio, sistema economico e dinamiche finanziarie, mentre siamo di fronte a cambiamenti strutturali nei comportamenti dei cittadini. Dall’altra parte, si tace sul fatto che la flessibilità del lavoro è solo la versione aggiornata della moderazione salariale inaugurata nel 1992: una strategia che è servita a mantenere inalterati i margini di profitto senza investire.

Occorre analizzare le ragioni che hanno determinato il fallimento delle politiche di stabilizzazione, facendo crescere il debito pubblico e le sofferenze bancarie a livelli mai visti prima. La teoria austriaca del ciclo economico addebita alle interferenze sul tasso naturale di interesse: il boom è determinato dalla illusione che l’ampia disponibilità di credito derivi da un reale aumento del risparmio, mentre in realtà è artefatta dalle banche centrali. Ne conseguono investimenti sproporzionati, che alla lunga non sono sostenuti dagli acquisti: è questo il caso della bolla immobiliare spagnola, con il peso dell’edilizia arrivato al 12% del Pil, che era stata finanziata dal debito contratto all’estero. Era stato l’attivo commerciale tedesco, e non il risparmio degli spagnoli, a finanziare la bolla: il boom è durato finchè non è stato chiaro che gli spagnoli non avrebbero mai avuto i soldi necessari per comprate i milioni di appartamenti che erano stati costruiti.

Non è questo il caso dell’Italia: nella prima fase recessiva determinata dalla crisi finanziaria internazionale (2009-2011) ha accumulato 17 punti percentuali di maggior debito pubblico, ben al di sotto della media dei paesi dell’Eurozona (+20,9%). Dopo, il dissesto è stato determinato dalle decisioni volte a creare un pareggio strutturale del bilancio e le condizioni per la riduzione del rapporto debito/Pil.

La tassazione patrimoniale sugli immobili ha fatto crollare il valore del bene sottostante, come avviene quando esplode una bolla. Il valore della ricchezza abitativa degli italiani (pari all’85% della ricchezza reale) è crollato con l’introduzione dell’IMU, passando da 5.308 miliardi del 2011 ai 4.908 miliardi del 2013: si sono persi 400 miliardi di valore (-7,5%) tornando al livello del 2006, ma in realtà la perdita è enormemente superiore visto che il mercato immobiliare è illiquido. Nessuno compra. Tutto questo, solo per recuperare 20 miliardi di imposte, pagate con altri redditi: in termini di costi/benefici, è una tragedia. La crisi dei mercati, che aveva ridotto la ricchezza finanziaria delle famiglie di 220 miliardi tra il 2007 ed il 2011, alla fine del 2013 non solo è  stata pienamente recuperata, ma c’è un differenziale positivo di 90 miliardi di euro. Si è verificato, come da manuale, un aumento della propensione al risparmio finanziario da parte delle famiglie, volta a ricostituire la perdita subita sul versante immobiliare ed a fini precauzionali per via della precarietà economica. Tutto questo flusso di nuovo risparmio non è stato però canalizzato attraverso il settore bancario, che tradizionalmente finanzia l’economia reale italiana, ma dai gestori che investono in asset finanziari, prevalentemente all’estero come risulta dall’aumento delle attività registrate dalla Banca d’Italia. I continui aumenti di imposte e tasse, compresi quelli preannunciati dal Def, non possono che deprimere ulteriormente il ciclo.

Bisogna avere il coraggio di tornare indietro, ripristinando l’ICI ed esonerando dal pagamento la prima casa, e parificare il prelievo sulle obbligazioni bancarie a quello sui titoli di Stato. In secondo luogo, il patrimonio pubblico immobiliare e le sofferenze bancarie vanno segregati in appositi Fondi di gestione a lungo termine. Occorre quindi individuare quattro assi di sviluppo, su cui far convergere gli investimenti pubblici e privati: efficienza energetica; riqualificazione edilizia e tutela del territorio; trasporti locali ed infraregionali; informatizzazione della PA. Il piano per la  banda ultra larga è solo una ultra perdita di tempo e di risorse. Il tempo delle cabine di regia, come quello delle spending rewiew, è finito.

Serve un Piano A, per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Il Piano B, quello che porta alla stagnazione ed al default, lo abbiamo già in corso.

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