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Perché Renzi sbaglia sulle Popolari. Parla Fumagalli (Confartigianato)

Banche Popolari, Jobs Act, Made in Italy: tutti temi nell’agenda dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi, alle prese con la grande sfida di tirare fuori il Paese dalle secche della crisi economica.

A che punto è l’attuazione di queste riforme? Che giudizio dare dell’operato del governo? E quali gli auspici per il futuro?

Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione con Formiche.net da Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato.

Fumagalli, siete soddisfatti dell’operato del governo Renzi?

Nì, o meglio: dipende di cosa parliamo.

Iniziamo dalle Banche Popolari. La riforma vi convince?

Noi ci siamo schierati contro l’ipotesi di omogeneizzare le diversità che sono storicamente presenti nell’offerta di credito nel nostro Paese.

Perché?

Il nostro timore è quello di vedere diminuita, mi passi il termine, la “biodiversità” del settore, laddove in tutto il mondo è stata mantenuta. Sono stato ospite di una visita di studio presso il Dipartimento di Stato Usa e ho scoperto, con mia grande sorpresa, che nel Paese delle big company ci sono 4900 banche cooperative locali. Non capisco questa reductio ad unum a un modello che non ci fa bene.

Che conseguenze potrebbe avere, dal vostro punto di vista?

In questi sette anni di crisi, abbiamo avuto 2009, 2010 e parte del 2011 in cui, nonostante il credit crunch del dopo Lehman Brothers, il credito alle piccole imprese si è concentrato soprattutto nella banche di credito cooperativo e nelle banche popolari. Proviamo a immaginare se, di fronte a un’altra crisi del genere, non ci fossero più questo tipo di istituti, con logiche diverse dal puro profitto.

Altro tema discusso è il Jobs Act. Uno studio di Intesa Sanpaolo, ripreso da Formiche.net, sostiene che grazie al provvedimento si intravedano i primi segnali di miglioramento dell’occupazione, sulla quale avrebbero avuto un ruolo le misure varate dal governo (la decontribuzione per 3 anni per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e la deducibilità del costo del lavoro dall’Irap per gli occupati a tempo pieno). Che ne pensa?

Dico che il pezzo migliore del Jobs Act è quello che lo ha preceduto, cioè il decreto Poletti. Il provvedimento ha avuto il coraggio, robusto, di regolamentare i contratti a tempo determinato facendoli uscire da una logica di mal sopportazione. Questo credo che abbia prodotto ottimi effetti sul mercato del lavoro. In seconda battuta l’abbattimento del tabù dell’articolo 18 credo che faccia bene. Con questo voglio dire che oggi le regole sono sicuramente migliori di com’erano prima che si mettesse mano al Jobs Act. E anche per ciò che riguarda le diverse necessità di ammortizzatori sociali per le imprese sotto i 15 dipendenti, siamo riusciti a far valere le ragioni della nostra peculiarità.

Mentre il taglio dell’Irap, sponsorizzato da Confindustria, vi ha convinto?

L’apporto al gettito dell’Irap è inversamente proporzionale alle dimensioni d’impresa. Con il nostro Ufficio Studi abbiamo vivisezionato il gettito dell’Irap e i primi due soggetti contributori sono banche e assicurazioni. Spesso abbiamo sostenuto che un taglio lineare dell’Irap come quello che è stato fatto adesso dal governo nell’ultima Legge di Stabilità non sia giusto. Credo che di tutto avesse bisogno il sistema Paese, meno che partire da banche e assicurazioni. Fatta questa premessa dico che tutto quel che si toglie dal peso fiscale va bene.

In futuro cosa vi aspettate dal governo nel breve periodo?

Spero che venerdì vada in Consiglio dei ministri un decreto di attuazione della delega fiscale dal quale ci aspettiamo la possibilità per le imprese piccole, ma che siano già in contabilità ordinaria che possano andare in regime Ires, ovvero che fino a quando non si prelevano gli utili dall’azienda si possa avere la stessa tassazione delle società di capitali, anche per imprese individuali e società di persone.

E a lungo termine?

Per ciò che riguarda invece la strategia complessiva, vorremmo un sostegno più convinto al Made in Italy, che è il terzo marchio più noto al mondo dopo Visa e Coca Cola. Siamo una delle cinque economia del mondo che hanno un surplus di oltre 100 miliardi di euro dalla nostra manifattura. Abbiamo fortemente pressato il governo perché prendesse una posizione più forte perché si ponesse la questione, che riteniamo di primario interesse nazionale. Su questo, soprattutto i soggetti più forti, si sono contraddistinti fino ad ora per non voler esplorare troppo la filiera. Ma questa opinione sta cambiando, anche in Confindustria, che si è resa conto del potenziale del Made in Italy, soprattutto in alcuni settori strategici. Ritengo che, da questo punto di vista, ci sia molto da imparare dall’artigianato italiano.

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