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C’è più di una Grecia nell’eurozona

La crisi greca, comunque andrà a finire, ha rivelato fra le tante un’amara verità: uscire dal cono d’ombra di una crisi economica è affare assai complicato, pure se gli aiuti non mancano, come in effetti non sono mancati.

Ma soprattutto, la crisi greca dovrebbe servirci a ricordare un’altra cosa: non c’è solo la Grecia in una situazione che ormai si è conclamata come irrecuperabile.

Altri paesi, per adesso celati nell’ombra della disattenzione, debbono vedersela con squilibri di entità simili, se non peggiori. E se finora il dibattito pubblico li ignora è solo perché costoro, da bravi studenti, stanno facendo tutto ciò che è necessario per terminare i propri compiti a casa, pure se gli esiti sono ancora incerti. Ma come reagiranno costoro una volta che la vicenda greca arriverà a conclusione?

Se la Grecia verrà in qualche modo graziata dall’Europa, perché non dovrebbero esserlo anche loro? O se invece verrà espulsa, come ha paventato la Banca centrale ellenica praticamente implorando il governo di raggiungere un accordo, cosa impedirà a questi paesi di considerare questa opzione?

Nel frattempo però la loro fatica è divenuta più acre, dovendosela vedere con mercati improvvisamente divenuti volatili e bizzosi, con la Grecia birichina che mena un colpo al cerchio e uno alla botte col resto dell’Europa a far da controcanto, nella migliore tradizione levantina che in qualche modo connota tutta questa vicenda penosa, che svela un’altra amara verità che si preferisce tacere: i debiti, a un certo punto, diventano inesigibili.

Che sia cattiva volontà del debitore od oggettiva impossibilità a onorarli, questi debiti, è materia che si addice alle varie tifoserie, e quindi me ne astengo.

Rimane il fatto che l’eurozona si è svegliata dal suo bel sogno primaverile, cullata com’era dal venticello arioso che spirava dalle alture di Francoforte, e si è trovata di fronte un partner riottoso che suona la tromba della riscossa sapendo di poter contare su una rete di solidarietà inter-europea che mal sopporta il giogo di Bruxelles ed è convinta di poter correre liberamente lungo infinite praterie di crescita solo che glielo si tolga.

Che sia, tale convinzione, perniciosa oppure illuminata, è anch’esso argomento da tifoseria, quindi ne rifuggo volentieri.

Ciò che qui vorrei narrarvi, piuttosto, è ciò che rimane di cinque anni di riequilibrio europeo ora che la crescita sembra tornare a far capolino, con grande sforzo delle nostre popolazioni, e tanto più in queste ore quando la farsesca tragedia greca mette improvvisamente a repentaglio ciò che faticosamente i mercati hanno edificato, su fondamenta forse troppo fragili che non resistono alla paura dei buio che ben conoscono i bambini. Se basta un qualunque staterello a far tremare la borsa di Francoforte, per tacere della nostra, come si dovrebbe dormire tranquilli ben sapendo che all’interno dell’eurozona ce ne sono almeno quattro di stati che oscillano pericolosamente sulla linea dell’abisso?

Mi viene in aiuto, in questa narrazione, un bel box pubblicato nel bollettino di giugno della Bce, dove si riepiloga l’andamento dei current account dei paesi in crisi dell’eurozona. E scorrendolo scopro che la crisi greca non dovrebbe preoccuparci solo per i suoi esiti incerti, che il timoniere della Bce Draghi preannuncia potenzialmente capaci di condurci verso acqua inesplorate, ma per quello che è capace di provocare negli altri paesi dell’area. Che sono, oltre alla Grecia, almeno altri quattro: l’Irlanda, la Spagna, Cipro, il Portogallo e la Slovenia.

Ma poiché è una storia lunga, è meglio raccontarla poco alla volta.

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