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Adriano Sofri, il caso e la beffa

Più ancora che lo scandalo denunciato dal sindacato della polizia penitenziaria, con tanto di critiche al ministro della Giustizia e di appello al capo dello Stato per un intervento di dissuasione resosi poi inutile, si potrebbe considerare una beffa la rapida comparsa e scomparsa di Adriano Sofri dagli “Stati generali – udite, udite – dell’esecuzione penale”. Che è un modo alquanto enfatico di chiamare i lavori preparatori dell’ennesima riforma carceraria, con la quale il giovane Guardasigilli Andrea Orlando spera forse di stupire il mondo intero, e non solo il suo esigente e fantasioso presidente del Consiglio, prodigo pure lui di parole quando si pone degli obbiettivi salvifici e cerca di dare al pubblico l’impressione di averli a portata di mano.

Si può pure capire che al ministro della Giustizia sia venuta l’idea di considerare un esperto di problemi penitenziari uno come Sofri, di cui è probabilmente assiduo lettore, e che le carceri ha avuto l’occasione di conoscerle davvero. Le conosce non per averle visitate, ma per avervi vissuto qualche anno da detenuto: non i ventidue, in verità, disposti dalla magistratura, al termine di un lunghissimo percorso processuale, come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi nel 1972, ma poco più o poco meno di sette, sin quando per serie ragioni di salute non gli fu concesso di scontare il resto della pena a casa, sino al 2012. Da allora, per fine pena appunto, egli è tornato ad essere un uomo libero a tutti gli effetti. Libero pure di essere consultato dal governo della Repubblica sul modo di migliorare l’esecuzione delle pene altrui.

Quello che francamente si capisce meno, anzi non si capisce per niente, è il motivo per cui il Guardasigilli ha ritenuto di gestire la consulenza di Sofri così maldestramente da non offrigli scampo alla scelta di una rinuncia tanto orgogliosa quanto paradossale di fronte alle proteste che non era certo difficile immaginare, una volta che la cosa fosse diventata di pubblico dominio. Proteste liquidate dall’interessato come “fesserie”, capaci tuttavia di caricare la sua prestazione di un “peso deformante di improprie letture”.

Sono bastate così al povero Sofri una sola telefonata di lavoro, come lui stesso ha precisato, a “un autorevole giurista” e “l’adesione – sono sempre sue parole – ad una eventuale riunione” perché esplodesse una mezza rivolta. Di fronte alla quale il ministro ha ritenuto di difendersi, e difenderlo, non vantando la reale e ormai conclusa esperienza penitenziaria di Sofri ma assicurando la completa gratuità della sua consulenza, senza i compensi, i gettoni e le trasferte previste o denunciate dai critici. Ed ora il povero Orlando – povero anche lui, sì – deve fornire i suoi “chiarimenti” anche alla vedova di Luigi Calabresi e al figlio Mario, direttore della Stampa, entrambi intervenuti nelle polemiche per condividerle.

Eppure a Mario Calabresi era capitato negli anni scorsi di condividere con Sofri non dico allegramente, ma almeno pazientemente la firma su un giornale di grande diffusione come La Repubblica, peraltro prima che lo stesso Sofri avesse finito di scontare, fra carcere e casa, la pena procuratagli dal barbaro assassinio del papà commissario. Che era stato ripetutamente e ignobilmente indicato alla gogna da titoli e articoli di Lotta Continua come il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato e interrogato nella Questura di Milano dopo la strage del 1969 nei locali ambrosiani della Banca Nazionale dell’Agricoltura.

L’aspetto più buffo di questa vicenda sta nel fatto che Sofri abbia dovuto rinunciare, in uno dei diciotto “tavoli” nei quali si articoleranno gli “Stati generali” della riforma carceraria, particolarmente in quello dell’istruzione, della cultura e dello sport, alla maggiore e reale competenza guadagnatasi, come detenuto, dopo quella sfortunata di direttore di Lotta Continua: sfortunata per le drammatiche complicazioni che gliene sarebbero derivate.

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