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Serve una Germania più europea o un’Europa più tedesca?

Secondo molti opinionisti e leader politici (di destra e di sinistra), la crisi greca conferma una verità inconfutabile: è il dogma del pareggio di bilancio che sta uccidendo il sogno di Robert Schumann e di Altiero Spinelli.

E dietro l’austerity imposta da Berlino molti credono di intravvedere l’ombra inquietante di Martin Lutero o quella luciferina di Max Weber, che però la genesi del capitalismo l’aveva imputata all’etica calvinista e delle sette protestanti radicali. Come ha osservato Angelo Bolaffi in un pamphlet che smonta in modo esemplare questi stereotipi (“Cuore tedesco”, Donzelli, 2013), le cose sono assai più complicate.

Beninteso, oggi l’europeismo della Merkel non è più quello fiducioso e romantico dei padri fondatori. Ma il suo antikeynesismo non deriva da un ottuso vincolo morale, simboleggiato dalla coincidenza semantica di debito e colpa – messa in luce già da Nietzsche – nel termine “Schuld”. Infatti, lo Stato sociale in Germania è nato prima (con Bismarck e Lassalle) e si è sviluppato poi (nella Repubblica di Weimar) indipendentemente dalle teorie di Keynes e di Beveridge. Quando la Germania era il “malato d’Europa” (come la bollò l’Economist), fu accusata da Paul Krugman di non aver capito che il mondo era cambiato, e che pertanto occorreva privilegiare la flessibilità piuttosto che la disciplina.

Ma – acceso assertore del deficit spending – non potendo sposare le critiche dei neoconservatori anglosassoni, per i quali le difficoltà dell’economia tedesca erano ascrivibili a un welfare troppo generoso, ne attribuì la causa nientemeno che alla rigidità pietista dell’imperativo categorico di Kant: “Quello che i tedeschi veramente vogliono è un quadro chiaro di principi: norme che specifichino […] quando i negozi saranno aperti e che valore ha il marco. Gli americani, invece, sono filosoficamente e personalmente più sciamannati. Essi si adattano con qualunque cosa sembra funzionare […]” (“Fortune”,19 luglio 1999).

Un’ultima considerazione. In un pionieristico volumetto sui problemi politici del pieno impiego (1943), Michal Kalecki sostenne che Hitler era stato il più diligente allievo di Keynes, e che il suo “keynesismo militarizzato” aveva rappresentato l’applicazione più conseguente della “Teoria generale”. Questa tesi ha profondamente influenzato i teorici dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato, oggi difesa con decisione dalla Merkel.

Ma, al di là della tragedia del nazismo, il trauma che ha segnato in maniera indelebile la biografia della cancelliera è stato il fallimento del socialismo tedesco, conclusosi con la dissoluzione della Ddr. Un regime in cui la mortificazione della libertà dell’individuo (stupendamente descritta nel film “Le vite degli altri”) si associava a un sistema capace di garantire soltanto burocrazia, corruzione e inefficienza economica.

Dare addosso alla Merkel è oggi uno sport assai diffuso, ma in pochi si interrogano sulle ragioni storiche della sua ossessione per i conti in ordine. Tuttavia, anche la cancelliera non può sottovalutare il rischio incombente di un “dissidio spirituale” tra Germania e Europa, per usare una celebre espressione di Benedetto Croce. Per scongiurarlo, ci vorrebbe una Germania più europea e non un’Europa più tedesca.

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