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Turchia, tutte le contraddizioni di Erdogan in Medio Oriente

La politica estera turca è entrata in crisi per il caos esistente dal Libano al Golfo e anche per l’avvicinamento fra gli USA e l’Iran, conseguente all’accordo sul nucleare. A rendere più complessa la situazione è intervenuta il 7 giugno la sconfitta elettorale dell’AKP, il partito islamico moderato del presidente Recep Tayyip Erdogan. Non è più possibile un governo monocolore. Per avere una maggioranza sono necessarie alleanze. Ma i tre partiti possibili – quello kemalista, quello nazionalista e quello democratico curdo – hanno visioni diverse – incompatibili fra loro – sulle priorità della politica estera turca. Intanto, la situazione internazionale mutava molto profondamente. Ankara percepiva sempre più chiaramente che doveva uscire dall’ambiguità.

L’attentato dell’Isis a Suruc e la ripresa degli attentati del PKK – il Partito dei Lavoratori Curdi fondato da Ochalan – dopo due anni di tregua decisa da Erdogan, nel tentativo di trovare una soluzione al problema curdo, che insanguina la Turchia dal 1984 – hanno persuaso Ankara di entrare nel “grande gioco” mediorientale. Ha iniziato a bombardare l’ISIS e il PKK, ha concesso agli USA di utilizzare la grande base di Incirlik e avrebbe concordato con Washington la sua politica in Siria, in particolare la creazione di una zona cuscinetto ai suoi confini sud-occidentali con la Siria e una no-fly zone sul territorio siriano per impedire a Basher al-Assad d’impiegare la sua ancora potente aviazione contro gli insorti. Il condizionale è d’obbligo. Il PKK è strettamente legato ai curdi siriani.

Le milizie di Protezione del Popolo (YPG), a cui si sono uniti molti guerriglieri del PKK, sono considerate dagli USA i loro più efficaci alleati nella lotta contro l’ISIS. La Turchia le considera ostili. Per questo è stata solo a guardare l’assedio di Kobane. Verosimilmente, sperava che l’ISIS avrebbe conquistato quella che è diventata una specie di Stalingrado curda, segno evidente dell’esistenza di un’identità nazionale curda e della necessità di costituire uno Stato curdo negli assetti geopolitici che avrà il Medio Oriente nel dopo-Assad e nel dopo-ISIS.

Generalmente, nella storia si è amici del nemico del proprio nemico. In Medio Oriente, in cui il conflitto geopolitico è sovrapposto a quello confessionale, specie – ma non solo – fra sunniti e sciiti, tale costante storica non ha spazio. I conflitti interni si intrecciano con quelli per procura. La situazione è talmente ingarbugliata da indurre Ankara a chiedere una riunione di emergenza del Consiglio Atlantico, a livello ambasciatori, per illustrare i suoi obiettivi e la propria politica.
A complicare ulteriormente la situazione, il PYD – partito dei curdi siriani – ha dichiarato di essere contrario alla costituzione di una zona-cuscinetto turca sul territorio siriano e che, qualora l’esercito turco dovesse entrare in Siria per occuparla prima e presidiarla poi, le sue milizie – YPG – si sarebbero alleate con Assad per respingere l’invasione. Insomma, un pasticcio!

È difficile decifrare quali ne siano le motivazioni e fino a che punto la retorica corrisponda ai reali intendimenti strategici.
Nella riunione di emergenza della NATO, tenuta su richiesta della Turchia ai sensi dell’art. 4 del Trattato di Washington – relativo a consultazioni su questioni di sicurezza comune – non si è pervenuti a nessuna decisione. Si sono scambiati punti di vista e certamente espressa solidarietà con la Turchia. Essa era scontata dato che quest’ultima aveva già “incassato” quella degli USA, in cambio all’autorizzazione all’utilizzo di Incirlik per attaccare l’ISIS e Assad. Molto caute e prudenti sono state le dichiarazioni sulla posizione curdo-siriana, argomento che troppo tocca la sensibilità turca dopo gli oltre 40.000 morti causati dal PKK nei suoi attentati. Soprattutto, gli USA hanno dato prova di equilibrismi diplomatici sostenendo l’YPG e condannando il PKK e dichiarandosi favorevoli alla creazione della zona di sicurezza – denominazione ufficiale “umanitaria” della zona-cuscinetto turca – in territorio siriano.

L’intervento della Turchia potrebbe cambiare la situazione nell’intero Medio Oriente, in particolare nella distruzione dell’ISIS. All’intervento militare la Turchia ha unito un’enorme offensiva delle forze di polizia, che potrebbero smantellare le reti logistiche dell’ISIS in territorio turco. Esse sono indispensabili per i rifornimenti e l’afflusso di nuove reclute per il Califfato, ormai sulla difensiva per carenza di effettivi. Sono indispensabili anche per la sua sopravvivenza finanziaria. Attraverso la Turchia, si sviluppa il contrabbando di petrolio e di opere d’arte, che costituiscono le principali fonti di finanziamento del Califfato, vitali per la sua sopravvivenza in quanto è un “proto-Stato”, con elevate esigenze finanziarie, sia per pagare lautamente i suoi miliziani (da 400 a 1.200 $, rispetto ai 60 delle reclute di Assad e ai 300 dell’al-qaedista al- Nusra) e a provvedere i servizi essenziali per i circa 8 milioni di abitanti nelle zone conquistate.

Va inoltre considerato che l’utilizzo di Incirlik aumenterà notevolmente l’efficacia degli attacchi aerei americani e britannici. Incirlik è infatti situata in prossimità del confine siriano. Gli aerei non devono percorrere, come oggi, più di 1.000 km prima di raggiungere i loro obiettivi. La caduta del Califfato in Medio Oriente farà crollare anche le sue appendici in Nord Africa, con positivo impatto anche sulla sicurezza italiana e forse sulla possibilità di pervenire in Libia a un governo unitario, se non di solidarietà nazionale.

La sconfitta del Califfato non risolverà l’instabilità del Medio Oriente. Nessuno ha proposto una nuova mappa geopolitica che possa dare una certa stabilità alla regione. Una sola cosa è certa. Esiste la possibilità che si determini, soprattutto in Siria, una situazione di guerra civile permanente. L’unica possibilità per evitarla è quella che la successione di Assad non comporti lo scioglimento di quanto rimane dell’esercito siriano.
Sarebbe un errore non tener conto di quanto analogo provvedimento abbia pesato in Iraq. La decisione dipenderà soprattutto dalla Turchia. C’è da sperare che dia prova di saggezza, in questo ginepraio mediorientale, in cui è impossibile dire quali siano i nemici e quali gli amici.

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