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Che cosa penso di Donald Trump

Marine Le Pen? Residuato bellico del secolo scorso. Beppe Grillo? Techetechetè della Rai. Le lamentele sull’uomo solo al comando? Chiacchiere pre Merkel che si appresta a restare una donna sola al comando fino al 2021. La vera novità politica di questa fase va cercata oltre Atlantico in un magnate dal riporto color polenta, l’ex re dei costruttori di grattacieli, l’ex principe dei casinò: Donald Trump. Un Berlusconi a stelle e strisce? Calma ragazzi. C’è stato prima Ronald Reagan. E ci sono stati anche un’infinità di altri outsider, terze forze fuori dai partiti, uomini del popolo (ricco ma pur sempre popolo). Il populismo politico (lo sanno bene Ilvo Diamanti e Michele Ainis anche se sulla Repubblica e sul Corsera non glielo fanno scrivere), ha le sue radici in America in un movimento che alla fine dell’Ottocento si chiamava Progressista e che portò al potere un presidente importante e contraddittorio come Theodore “Teddy” Roosevelt, di famiglia patrizia, parente del Franklin Delano Roosevelt ammiratore di Mussolini mitizzato dalla sinistra ex gruppettara.

Nessuno a questo punto sa che fine farà Trump nella complicata e confusa corsa alla Casa Bianca. Magari lo avrà davvero manovrato Bill Clinton per favorire la moglie (la tesi rilanciata dal Foglio non è peregrina, del resto il primo fu François Mitterrand a inventarsi e manovrare Jean Marie Le Pen per battere i gaullisti). Ed è chiaro che nell’America post-obamiana i due storici partiti sono lacerati e indeboliti, mentre mancano personalità forti (Hillary esclusa). In ogni caso il confronto televisivo dell’altra sera tra i primi dieci candidati alla nomination repubblicana aveva un sapore da talk show all’italiana, con Trump assoluto mattatore.

Lo riconosce il New York Times: con allarme e tanta puzza sotto il naso scrive che ha rubato la scena “mescolando politica e pizza”. Certo è che tutti gli altri hanno fatto fronte contro di lui cercando di colpirlo. Il magnate “polentina” ha schivato ogni colpo rispondendo con degli uppercut. Le donne e il femminismo? “Non c’è tempo per il politicamente corretto”. Travolge con una terribile gag Rand Paul il beniamino dei Tea Party che usa una protesi acustica: “Ma mi senti, senti quello che dico?”. Poi sbotta: “Adesso mi attacca, ma io a questo qui gli ho dato un sacco di soldi”. E Hillary? “L’ho invitata al mio matrimonio e sapete cosa? E’ venuta, non poteva non venire perché io l’ho finanziata”. Sulle case da gioco ad Atlantic City: “Chiedete a Chris come l’ho aiutato per cercare di rilanciare la città” (Chris Christie è il governatore del New Jersey repubblicano centrista).

A ognuna delle sue battute, il pubblico alla Quicked Loans Arena di Cleveland reagiva con risate, commenti, battimani, assolutamente proibiti secondo le regole rigorose dei confronti politici televisivi. Ma il fatto è che Trump sta rovesciando il tavolo e rimescolando le carte. Non ha proposte? Non conosce i dossier? Non sa come riequilibrare il bilancio e che fare in Medio Oriente? Lui confonde le acque, avvelena i pozzi degli avversari. Jeb Bush uno dei più preparati, ha fatto la figura del chierichetto.

D’accordo, è bravissimo a fare scena, ma non sa nulla di nulla, non è preparato su nessuna delle gravissime questioni che il nuovo presidente deve affrontare, si lamenta il New York Times. E ha ragione. Ma in America si vota davvero per il migliore, con lo spirito platonico che ispirava i padri fondatori? O prevale ormai l’acchiappafantasmi? E solo in America? L’Italia in questo è un vero laboratorio politico. La Francia ci sta dietro. E i serissimi tedeschi che chiamano Mutti, mammina, una anziana signora senza figli che certo non brilla nella conoscenza della critica della ragion pura? Dunque, qual è la conclusione che siamo arrivati al capolinea della democrazia? Ebbene, se intesa come potere assoluto di una maggioranza del popolo sovrano, al di là e al di fuori delle istituzioni intermedie garanti delle regole e dell’equilibrio dei poteri, ci siamo: la democrazia è degenerata in demagogia. Nel migliore dei casi, siamo al ritorno di Rousseau contro Montesquieu.

Si può dire che non è la prima volta. E molti fanno il paragone con il ventennio cruciale del secolo breve, quando il popolo diede il voto all’ex socialista con i fasci del littorio e all’ex imbianchino. Anche allora un regime, quello liberale ottocentesco, era crollato e nessun altro stava nascendo, mentre la crisi devastava interi ceti sociali e minava le basi del consenso. Il confronto è affascinante, ma ci porta fuori strada. Il populismo progressista (se nasce da destra o da sinistra a questo punto non fa grande differenza) oggi è sì figlio di una crisi dei regimi democratici occidentali, ma è soprattutto la reazione confusa alla globalizzazione non nei paesi poveri che ne hanno in gran parte beneficiato, ma nei paesi ricchi che si sentono minacciati. Il primo a definirla chiaramente negli anni ’90 fu un filosofo liberale, Isaiah Berlin, che certo non nutriva nessuna simpatia per qualsiasi cosa odorasse di totalitarismo vecchio e nuovo. Oggi varrebbe la pena leggere o rileggere quel che scrisse nel suo “Legno storto dell’umanità”.

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