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Jobs Act o bonus, di chi è il merito della nuova occupazione?

Anche in questa occasione non è dovuto trascorrere molto tempo prima che l’Istat (tramite il suo presidente Giorgio Alleva) sconfessasse nuovamente il ministro Giuliano Poletti accusandolo – nientemeno – di fare un uso politico dei dati sull’occupazione.

L’ineffabile titolare del Lavoro continua a fornire statistiche più che lusinghiere mentre quelle ufficiali recentemente diffuse dall’Istituto di statistica, riferiti al mese di giugno, hanno rappresentato una situazione differente, purtroppo ancora negativa, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione giovanile.

Eppure, a prova di una realtà contraddittoria, è aumentato il numero dei posti vacanti (un imprenditore ha scritto una lettera ad un quotidiano dicendo che vorrebbe assumere, ma non trova giovani disposti a “faticare”). Inoltre, durante gli “anni difficili”, è cresciuto (di circa 300mila unità) anche il numero dei lavoratori stranieri. Il programma “Garanzia giovani” stenta a decollare e mette in evidenza (secondo il monitoraggio di luglio) una consistente discrepanza tra l’ammontare degli iscritti (oltre 600mila, al lordo delle cancellazioni), quello dei giovani “presi in carico” (350mila) e quello di coloro (113mila) a cui è stata fatta una proposta di inserimento nel mercato del lavoro. Questi ultimi aspetti denunciano il permanere di sostanziali limiti nel campo delle politiche attive di cui non si intravvede il superamento in tempi quanto meno ragionevoli.

Lo schema di decreto delegato (di cui al Jobs Act) relativo all’istituzione dell’Anpal (l’agenzia nazionale per le politiche attive) è costretto a muoversi in un ambito costituzionale “sghembo” che affida, tuttora, tali politiche alle Regioni in attesa della revisione delle norme del Titolo V che dovrebbe conferirle allo Stato. In buona sostanza, il combinato disposto tra il superincentivo per le assunzioni a tempo indeterminato nel corso del 2015 e l’introduzione di un nuovo contratto che ribalta la tutela del licenziamento (che da reale diventa normalmente obbligatoria) ha influito sulla composizione del mercato del lavoro, ma è dubbio che sia servito ad aumentare l’occupazione.

Nel mese di maggio 2015 il numero di attivazioni di nuovi contratti di lavoro (il che non significa nuova occupazione) è stato pari a 780.351 (a fronte di 738.242 nel maggio 2014); di questi 153.633 erano contratti a tempo indeterminato (19,7%) a fronte di 108.434 (14,7%) nel maggio 2014; 518.778 (66,5%) erano a tempo determinato a fronte di 501.247 (67,9%) nel maggio 2014; 19.694 contratti di apprendistato (2,5%) contro 24.304 nel maggio 2014 (3,3%); 33.280 collaborazioni (4,3%) a fronte di 47.340 del maggio 2014 (6,4%); 54.966 (7%) le forme di lavoro classificate nella voce “altro” a fronte di 56.917 del maggio 2014 (7,7%).

Da questi andamenti si possono trarre le seguenti considerazioni: premesso che, a determinare gli effetti sul mercato del lavoro concorrono diversi fattori e non solo quelli di carattere normativo, si può constatare quanto segue: 1. non vi è per ora modo di distinguere (ammesso e non concesso che abbia un senso farlo) se gli effetti prevalenti siano prodotti dal bonus della decontribuzione o dal contratto di nuovo conio; 2. si nota, comunque, una spinta ad una maggiore qualificazione dei rapporti di lavoro (ai danni delle collaborazioni); 3. l’incentivo previsto nella legge di stabilità “cannibalizza” l’apprendistato, in quanto le agevolazioni risultano più convenienti di quelle previste per il rapporto a causa mista decantato, a parole, come la via maestra per consentire ai giovani l’ingresso nel mercato del lavoro.

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