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Cosa fare per il Sud

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Archiviate le anticipazioni del Rapporto Svimez sul Mezzogiorno che nel loro sottolineare sempre e soltanto il divario del Sud rispetto al Nord non aiutano certo a comprendere le dinamiche socioeconomiche effettive di tanti territori meridionali e i molti punti di forza che vi esistono e dai quali bisogna ripartire per rafforzare l’economia non solo del Meridione ma dell’intero Paese, è bene che alcune riflessioni (e doverose autocritiche) proseguano nella classe dirigente ‘allargata’ del Meridione, anche per cercare di contribuire in qualche modo ad un possibile masterplan (mi si consenta l’espressione) di nuovi comportamenti collettivi.

Procedo schematicamente e me ne scuso. Prima considerazione: sui ritardi nella realizzazione di certe opere pubbliche nel Sud, finanziate con risorse ordinarie, e sulle precise responsabilità che causano quei ritardi si è ormai parlato tanto, che non varrà la pena insistere ancora sul mancato avvio dei lavori della 275 Maglie-Leuca se non per ricordare che essa è ormai da guinness dei primati negativi. E lo stesso dicasi per quanto è accaduto nel porto di Taranto, ove solo ora qualche sprovveduto scopre quello che si sapeva già dal 2001 e cioè che non tutti gli adempimenti previsti sul molo polisettoriale dalla convenzione con l’Evergreen erano stati realizzati, precostituendo così le condizioni – cui se ne sono aggiunte altre altrettanto gravi negli ultimi due anni, a tutti fin troppo note – perché la società di Taiwan finisse col considerare alcune Autorità locali del tutto inattendibili. E’ la cruda verità e ce la dobbiamo dire tutta. Senza se e senza ma.

Potremmo fare ancora una volta l’elenco delle opere già finanziate, ferme o meglio in alcuni casi mai partite: questa testata lo ha fatto con grande precisione descrittiva e si sperava almeno che si aprisse un dibattito con qualche voce anche autocritica. Niente, come se nulla fosse accaduto, come se nessuno avesse una qualche responsabilità nel mancato avvio di interventi infrastrutturali di cui vi è un grande bisogno.

Procediamo. I nostri problemi non sono solo i ritardi ormai insostenibili nel mettere a cantiere tante opere finanziate da tempo, ma anche i comportamenti individuali e collettivi che (eufemisticamente) potremmo definire non all’altezza delle sfide che dobbiamo sostenere ormai da anni. Si considerino le imprese, soprattutto le piccole e le medie degli operatori locali: abbiamo in Puglia e nel Salento nuclei diffusi di aziende dinamiche, con prodotti propri, non prive di intraprendenza e capacità competitive. Il Premio Industria Felix, ideato da Michele Montemurro, lo ha testimoniato assegnando riconoscimenti a veri campioni dell’imprenditoria locale. Ma quanti di questi poi sono associati in reti di impresa ed escono con questi organismi dai mercati locali, incominciando ad esplorare qualcuno di quelli esteri ? Quante di queste società aggrediscono con continuità i mercati oltreconfine, magari con l’assistenza del nuovo ICE ? Purtroppo non sono ancora molte, anche se non mancano alcuni casi meritevoli di menzione, come ad esempio la Stoma Group, la Modomec, la Serveco – quest’ultima impegnata in un’ambiziosa diversificazione dei suoi business tradizionali con prodotti manifatturieri e puntando su alcuni beni di nuova concezione e a tecnologia avanzata. La maggior parte delle PMI locali e dell’intera Puglia diffida ancora delle Reti, dei consorzi, delle Ati, non rendendosi conto – o cominciando solo ora a farlo – che o ci si proietta anche sui mercati esteri con tutta l’organizzazione necessaria, investendo risorse per questo obiettivo, oppure si resterà chiusi in mercati che potrebbero rivelarsi anche molto angusti e affollati da competitor ben più qualificati e aggressivi. Non vi sono più rendite di posizione che possano essere tutelate. Ilva, Versalis, Eni Refining&Marketing, Alenia Aermacchi, Enel, Enipower, Sanofi, Salver, AgustaWestland, Ge Avio non possono regalare nulla a nessuno, anche se lo volessero. La concorrenza ormai è globale e si compete con l’Italia e col mondo anche a Grottaglie, Brindisi e Taranto. Il loro indotto locale lo ha compreso fino in fondo ? E si è stimato quanto pil e quanta occupazione non si genera per determinati comportamenti imprenditoriali, a nostro sommesso avviso molto negativi?

E veniamo all’Università. Ci si preoccupa giustamente della disoccupazione intellettuale che nel Sud è a livelli altissimi. Ma ci siamo mai chiesti noi professori quali siano i titoli di laurea in possesso dei nostri giovani disoccupati? Perché le lauree in discipline scientifiche trovano sbocchi anche nel Sud, e questo non accade invece per certi corsi di laurea in discipline umanistiche? L’orientamento per l’entrata nelle Università lo si pratica veramente bene? E si dice veramente – a chi si voglia iscrivere a certi corsi di laurea –  che i titoli da essi rilasciati non hanno sbocchi immediati e probabilmente anche futuri? Questo significa allora abbandonare al loro destino di disoccupati a vita i laureati in certe discipline? Assolutamente no, ma bisogna incominciare a pensare forse a percorsi di riqualificazione per altri sbocchi occupazionali diversi da quelli originariamente pensati. Allora, ne vogliamo parlare nelle nostre Università? O dobbiamo trincerarci nella granitica difesa del nostro orticello accademico ?

I temi proposti sono solo accennati, ne sono consapevole. Bisogna approfondire molto la riflessione per poi giungere probabilmente a radicali cambiamenti di comportamenti. Ma per piacere facciamolo, e subito, tutti, nessuno escluso, perché non c’è più tempo e margine per autoassoluzioni inconcludenti e dannose.

Federico Pirro

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