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Corbyn chieda pure scusa agli iracheni, ma poi faccia qualcosa (in più)

Perugia ─ Jeremy Corbyn, il candidato più accreditato per ricoprire il ruolo di leader del Labour britannico (al voto tra pochi giorni), ha dichiarato che se dovesse vincere le primarie di partito chiederà ufficialmente scusa per la Guerra d’Iraq. Corbyn, che si muove all’interno delle istanze più oltranziste della sinistra inglese e che vuole riportare il partito verso le vecchie radici socialisti, accede ad una tematica tanta cara alla sinistra pacifista e anti-capitalista globale: la decisione di Tony Blair di seguire gli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq nel 2003.

Nemmeno Ed Miliband, considerato sconfitto alle ultime elezioni perché troppo appiattito su posizioni anti-business e su retoriche della “vecchia sinistra”, era arrivato a tanto: aveva ammesso più volte che quella guerra era stata un errore, ma scusarsi con l’Iraq mai. Ora però c’è Corbyn ─ il cui programma elettorale sembra arrivare direttamente dal 1970: espulsione dei privati dalla Sanità, aumento della spesa e della tassazione sui ricchi, nazionalizzazione delle ferrovie e delle compagnie energetiche, fino alla riapertura delle miniere di carbone chiuse dalla Tatcher.

Il fatto, però, è che dall’Iraq rispondono che con le scuse dei Labour fanno ben poco, e anzi adesso serve che il suo partito (ed eventualmente il suo governo se dovesse vincere le elezioni del 2020: difficile) si impegni a sostenere la missione contro lo Stato islamico e risistemare il Paese.

Martin Chulov, giornalista del Guardian esperto di Medio Oriente, ha intervistato diversi contatti iracheni e ha chiesto loro cosa pensavano della volontà di Corbyn. Il senso generale è quello di un proverbio iracheno che dice “dove posso incassare le tue scuse?”. Le risposte dicono tutte più o meno le stesse cose: le scuse per noi in questo momento significano sostegno contro i gruppi che combattono sul nostro territorio e aiuto per mettere fine alle sofferenze quotidiane del nostro popolo.

L’invasione irachena anglo-americana che aveva portato alla deposizione del regime baathista di Saddam Hussein da cui poi era scaturita la guerra settaria in Iraq, è rimasta un lavoro incompiuto anche a causa di volontà ideologiche. Barack Obama aveva vinto le elezioni calcando la mano sulla necessità del ritiro e della mano tesa; l’opinione pubblica iniziava a sensibilizzarsi fortemente alle teorie complottiste; il rafforzamento di posizioni pacifiste e di disimpegno si scontrava con le necessità e le perdite dal campo. E così l’Iraq fu lasciato quasi in balia di se stesso, in un momento in cui non era in grado di badare a se stesso. Le posizioni radicali all’interno dei mondi sciiti e sunniti iracheni prendevano il sopravvento, e mentre i primi legittimavano il proprio potere con il governo a sostegno occidentale (voluto dall’America), gli altri viravano sempre di più verso le istanze ultra-religiose sostenute da gruppi radicali e settari. È questo, tagliando con l’accetta, il contesto socio-culturale che ha fatto da terreno di coltivazione ai prodromi dello Stato islamico. Un contesto, questo è vero, stimolato dal lavoro lasciato a metà dall’Occidente.

Ora gli iracheni chiedono ai Corbyn di non lavarsi le coscienze con scuse tardive e vuote, ma di finire di sistemare le cose: e i Corbyn sembrano non capire, perché in fondo quello che cercano è solo il consenso del proprio, istintivo, elettorato. Il futuro leader labour ha già preso posizioni contrarie alla possibilità di espandere le missioni aeree inglesi contro lo Stato islamico anche in Siria ─ una delle necessità tattiche assolute per fermare davvero contro il Califfo. È il pacifismo left populist, bellezza.

@danemblog

(Foto: archivio Formiche)

 

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