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Idee (non populiste) su come gestire i nuovi profughi

Migranti migrazione

Parla bene Angela Merkel, parla con lo spirito del padre pastore. Migranti e rifugiati sono la sfida più grande dopo la seconda guerra mondiale. Allora 30 milioni di persone vagarono per l’Europa e nessuno li voleva accogliere, i bavaresi respingevano i prussiani, gli jugoslavi cacciavano gli italiani, i polacchi non volevano i tedeschi. Tutti rifiutavano gli ebrei. L’Europa divisa in nazioni omogenee nacque allora, non prima, come ricorda lo storico Tony Judt. Quelle stesse nazioni oggi assediate da una nuova ondata di 50 milioni di profughi, questa volta non europei e, per la maggior parte, non cristiani, ma musulmani. Parla bene la Cancelliera e questa volta agisce anche bene, sospendendo il trattato di Dublino, una delle tante carte europee che non reggono alla prova della storia.

Parla bene anche il New York Times mettendo sotto accusa l’Unione europea impreparata e intimorita, dove ciascuno cerca di scaricare il fardello sul proprio vicino e tutti sui Paesi del sud più esposti come l’Italia e la Grecia. Il New York Times esprime l’opinione maggioritaria negli Stati Uniti e senza dubbio quella dell’amministrazione Obama. Perché allora Washington non si fa promotore di un intervento delle Nazioni Unite? Se siamo di fronte a un’altra guerra mondiale sia pur asimmetrica, se i rifugiati ne sono la conseguenza, chi meglio dell’Onu dovrebbe intervenire?

Le Nazioni Uniti parlano anch’esse, ma finora parlano soltanto. Quel che accade tra l’Africa, il Medio Oriente e l’Europa non è diventata una priorità al palazzo di Vetro, tanto meno per il consiglio di sicurezza, anche se due dei suoi membri (Francia e Inghilterra) ne sono direttamente coinvolti. Ci sarà un vertice tra capi di Stato e di governo che, però, in quanto tale non ha potere esecutivo, l’unica strada è convocare il consiglio ed emanare una direttiva cogente per tutti i paesi. Finché non farà questo, l’Onu mancherà al proprio mandato internazionale.

Parla benissimo il Papa che ha indetto il Giubileo della misericordia, ma anche la Chiesa cattolica deve passare dalle belle parole ai fatti concreti. Deve aprire le chiese e i conventi, non solo quelli vuoti, deve mobilitare le sue truppe di preti, monaci e suore per accogliere, sostenere, integrare. La Chiesa non è preparata, il suo esercito esangue si è ritratto dietro la linea del Piave, la difesa della vita. Ebbene oggi ci sono 50 milioni di vite da difendere e ricostruire.

La catastrofe umana che ci sta travolgendo comincia a risvegliare le coscienze e anche l’attenzione dei governanti, e questo senza dubbio è un bene, ma siamo in grave ritardo, quindi occorre passare subito all’azione. Come? Abbiamo già detto che l’Onu e non l’Unione europea deve assumere la guida, con direttive chiare e con interventi massicci, mobilitando tutte le sue strutture. Certo non basta l’UNHCR, che è un’agenzia per i tempi normali, bisogna dislocare i caschi blu nei Paesi d’origine, gestire lo screening e l’identificazione, combattere i mercanti di uomini, stilare una chiara lista di paesi in conflitto, incanalare il flusso verso i paesi d’accoglienza.

A questo punto deve intervenire la Ue. Il che fare è chiaro: stabilire uno standard comune per l’asilo, accogliere la lista di Paesi in conflitto stilata dall’Onu, creare centri europei di accoglienza gestiti in comune, stabilire delle quote in funzione del grandezza e della forza economica dei paesi, ma anche della capacità di accoglienza (Germania e Svezia, ad esempio, pur essendo più ricchi sono anche quelli che hanno il maggior numero di profughi in quantità e in percentuale), creare strutture di integrazione, dalle scuole agli alloggi, fornire un reddito minimo finché non ci sia l’inserimento al lavoro, o meglio ancora un posto di lavoro al più presto, il tutto a carico non dei bilanci nazionali, ma dell’Unione europea.

A fronte di questa cornice è non solo possibile, ma doveroso distinguere tra profughi e migranti per ragioni economiche, trattarli in modo diverso, respingere chi non ha i requisiti per essere accettato. E naturalmente lavorare nei paesi dai quali ha origine il flusso.

E’ chiaro che si tratta di interventi a valle, la soluzione all’emergenza può avvenire solo a monte, combattendo le guerre in corso. Finora non c’è consenso sul da farsi. Non c’è nemmeno la consapevolezza che si tratti di un conflitto mondiale, prevale la tesi degli scontri locali e separati. Al contrario, pur nella loro diversità, essi fanno parte di un fronte unico che mette in discussione la sicurezza e la libertà. Su questo deve esprimersi l’Onu, ecco perché il luogo deputato è il consiglio di sicurezza.

Anche nel caso in cui finalmente si decidesse di incrociare i ferri, la natura del conflitto è tale che non potrà essere risolto rapidamente, né con il dispiegamento tradizionale di truppe. Si tratta di usare molti mezzi, soft e hard power, come durante la guerra fredda. Quindi ci vorrà molto tempo, durante il quale in Europa e nei Paesi occidentali occorrerà condurre una battaglia delle idee e dei valori. A fronte di una risoluzione delle Nazioni unite, chi si oppone va considerato un nemico dell’ordine mondiale, anche nei Paesi occidentali: si tratti di partiti organizzati e votati, di governi, di associazioni, di singoli vocianti profeti di sventura. Non è più tempo per strumentalizzazioni elettoralistiche, non è più tempo per fuochisti e incendiari. Ci siamo baloccati abbastanza con i nostri giochini da ultimo uomo, satollo ed egoista, che scambia i valori etici per il valore di scambio (o per uno scranno in Parlamento).

Stefano Cingolani

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