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Jeb e Hillary dinasty dei patatrac. Trump re Mida

E’ proprio una ‘dinasty’. Ma, per il momento, dei patatrac. Per Hillary e Jeb, le brutte notizie giungono a coppie, loro che parevano sicuri di disputare nel 2016 la rivincita del match 1992 Clinton-Bush e che oggi collezionano delusioni dai sondaggi e preoccupazioni dai loro staff.

Secondo Politico, un sito che di politica e presidenziali se ne intende, tre ‘raccoglitori di fondi’ hanno piantato in asso Jeb Bush venerdì “per contrasti personali e dubbi sulla sua candidatura”. Quanto a Hillary Clinton, il rilevamento più recente rileva che la sua popolarità fra i democratici non è mai stata così bassa dal 2012: colpa dell’emailgate, lo scandalo sull’uso di un account privato di posta elettronica invece di quello ufficiale quand’era al Dipartimento di Stato.

Ma se Hillary continua a non avere avversari credibili per la nomination democratica –resta almeno 20 punti avanti a tutti, in attesa che scenda in lizza il vice-presidente Joe Biden-, Jeb un avversario ce l’ha. Anzi, ne ha 16, un plotone. Ma uno, soprattutto, lo preoccupa, perché vive l’estate fortissimo.

Il magnate dell’immobiliare e showman Donald Trump esce indenne da gaffes e contraddizioni. Insulta una giornalista della FoxNews, caccia un cronista ispanico da una conferenza stampa perché pone domande scomode, chiede 100 dollari per l’ingresso a un suo evento nel New Jersey dopo avere promesso che non avrebbe fatto collette elettorali (“Non sto raccogliendo fondi -spiega, senza riuscire a essere convincente-, chiedo solo un contributo per dare da mangiare a tutta ‘sta gente”).

Nulla lo scalfisce: anzi, lui è ansioso di smentire di avere il parrucchino (“uso la lacca”, per tenersi su i capelli in quel suo modo caratteristico); e di continuare a fare affari apparentemente bislacchi –con un socio, starebbe trattando l’acquisto del San Lorenzo de Almagro, la squadra di Buones Aires per cui tifa papa Francesco-.

L’uscita di scena dei tre consulenti di Bush trova spiegazioni diverse: Kris Money, Trey McCarley e Debbie Alexander, che non hanno finora dato spiegazioni, avrebbero volontariamente lasciato la campagna, pur continuando a lavorare per Jeb; oppure, sono state messe alla porta perché non c’era più bisogno di loro. Tutte e tre hanno ottimi contatti fra i repubblicani in Florida e avrebbero fatto bene il loro lavoro.

Il portavoce Tim Miller minimizza: l’ossatura della squadra di Miami resta, “Ann Herberger, vent’anni con Bush, continua a guidarla”. Fonti della campagna anonime sottolineano la difficoltà di ‘miscelare’ la squadra della Florida con quella nazionale.

Nella corsa alla Casa Bianca, la raccolta dei fondi è fondamentale: se resti senza soldi, sei fuori. Trump a parte, tutti ne sono condizionati. Mitt Romney, il candidato repubblicano nel 2012, ha subito rinunciato quando s’è reso conto che numerosi suoi donatori s’erano schierati questa volta con Jeb, figlio e fratello di presidente, ex governatore della Florida. Romney e Bush s’incontrarono a Salt Lake City, constatarono la situazione, concordarono forse qualcosa per il futuro; e Romney si chiamò fuori.

Prima di scendere in campo, Hillary e Jeb hanno disputato le loro ‘primarie di Goldman Sachs’: obiettivo, accaparrarsi i favori della banca d’affari. Anche se Charles Geisst, storico di Wall Street al Manhattan College, avverte: “A Goldman Sachs piace giocare sui due i fronti, in particolar modo in questo caso, perché entrambi i candidati, Bush e Clinton, potrebbero in definitiva rivelarsi utili”.

Hillary ha –lei personalmente e il marito Bill- rapporti di lunga data con Goldman Sachs, mentre Jeb ne ha ‘corteggiato’ i capi con una serie di visite a New York. Si racconta che, in un solo giorno, abbia partecipato a un evento al Ritz Carlton organizzato da Dina Powell, che guida la Goldman Sachs Foundation e che lavorò alla Casa Bianca con suo fratello George W., e sia pure intervenuto ad un evento curato da Jim Donovan, un dirigente della banca, nel 2012 fra i sostenitori di Romney.

Secondo Politico, i finanziatori di Jeb non sono preoccupati dell’andamento della campagna quanto delle prestazioni del candidato, che non riesce a ‘infiammare’ i repubblicani. La raccolta dei sussidi continua, sia pure a ritmo rallentato, ma i costi di uno ‘staff mammuth’ crescono: “Il problema non è quanti soldi Bush riceve, ma quanti ne spende”. Per Trump, né l’uno né l’altro: il parrucchino, sì, lo inquieta.

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