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Grande scoperta: l’Islam moderato esiste (me l’ha detto l’Eni)

Perugia ─ Premesse per nuovi equilibri mediterranei. Le argomentazioni “le primavere arabe ‘americane’ hanno fallito”, “sono tutti uguali da al Azhar a Raqqa”, “l’Islam moderato non esiste”, “stanno arrivando a Roma”, saranno trattate in data da definirsi, causa riqualificazioni in corso.

Dieci giorni fa, di domenica, la più grossa azienda italiana, l’Eni, ha annunciato di aver scoperto un reservoir di gas a largo dell’Egitto ─ il giacimento si trova in un’area del Mediterraneo a circa 200 chilometri dalla costa a una profondità di 1.450 metri, nel cosiddetto “Shorouck Block” dove Eni è attiva dal gennaio del 2014. “Zohr” (così è denominato il prospetto esplorativo) secondo i vertici della multinazionale italiana dell’energia, è «il più grande giacimento di gas del Mediterraneo» e avrà un impatto globale sul mercato energetico. Va da se che quel pozzo sarà il fulcro attorno cui girerà il futuro della geopolitica regionale.

A cominciare dall’Egitto. Il Paese è governato ufficialmente dalla fine di maggio 2014, quando il golpista generale dell’esercito Abdel Fattah al Sisi ha vinto le elezioni. Da allora il suo governo è accompagnato dalle critiche degli analisti economici che ne studiano la stabilità (bassa) vincolandola ad un problema in cima alla lista: l’energia. Sisi è una sorta di rais con pochi spicci, che però sta ottenendo un buon consenso interno (vero e non soltanto di regime) e un’ottima considerazione internazionale. I Paesi del Golfo lo aiutano, la Russia lo corteggia, i governi occidentali l’hanno eretto a baluardo contro l’Islam radicale. E così è diventato il punto di equilibrio di un’area complicata. Si passa serenamente sopra al fatto che questo equilibrio ha un prezzo che si paga sul piano dei diritti umani. Si passa serenamente sopra al fatto che Sisi fu messo a capo dell’esercito da Mohammed Morsi (il presidente voluto dalla adesso odiatissima Fratellanza musulmana) perché incarnava la devozione islamica. Ora Sisi è un anti-islamismo-radicale, uno di quelli che rappresenta il futuro dell’Islam di governo (tra i “poco importa” c’è pure la definizione storica che il Wall Street Journal gli affibbiò: «Un riformatore improbabile»). Ambiguo, è il moderato che serviva, anche se moderato non è: per dirla con Franklin Roosevelt, «è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Però i soldi stanno finendo, e vincolare l’economia nazionale ai caritatevolmente interessati aiuti arabi sarebbe una follia.

Con Sisi il governo italiano, il paese dell’Eni, ha aperto un canale preferenziale, ufficialmente da quando al forum economico di Sharm el Sheikh, a marzo, il premier Matteo Renzi fu invitato per un incontro bilaterale riservatissimo. Le informazioni che uscirono parlavano di accordi in materia di sicurezza e sviluppo economico. Per l’Italia, l’Egitto è il partner fondamentale nella gestione della crisi libica, capitolo spinoso di politica estera, che prima o poi Roma dovrà decidersi di affrontare con priorità. (Nota: Sisi è completamente sbilanciato a favore dello pseudo-governo di Tobruk e considera quegli altri di Tripoli terroristi alla stregua dell’IS e dei jihadisti libici. Questo non è quello che in via assoluta si può definire “un bene” per una futura conclusione della guerra civile in Libia: ma “poco importa”, si diceva).

Ora l’Egitto, grazie all’italiana Eni, ha scoperto di aver sotto il proprio sedere un giacimento di gas enorme: ossigeno per il governo alle strette su spese e casse. L’amministrazione a causa di un sistema di sussidi che Sisi sta lentamente riformando, compra “energia” per oltre il 70% di quei sussidi (per questo è il problema principale), per rivenderla a prezzo più basso nel mercato interno, ma non ha soldi per comprarne abbastanza da mandare a regime le centrali elettriche, così soprattutto in estate i balck-out sono all’ordine del giorno. Con Zohr potrebbero arrivare tra i trenta e i venti miliardi di metri cubi annuali su un fabbisogno energetico di 55: non sarà l’indipendenza energetica nixoniana, ma è di certo una boccata d’aria che libererebbe risorse a lungo periodo al Paese. Cartolina dall’Italia: felicitazioni se (se!) Zohr darà più stabilità all’Egitto.

Nel frattempo in Russia. Rosneft, l’azienda dell’energia del Cremlino, ha già siglato un accordo con la compagnia statale egiziana per la fornitura di gas naturale (in stato liquido): il flusso inizierà da ottobre, l’accordo è precedente alla scoperta dell’Eni. Comunque Zohr andrà a regime completo intorno al 2020, dunque c’è da coprire questo lasso di tempo, e comunque nonostante il governo del Cairo sia stato «galvanizzato dalla notizia della scoperta» (parole di Claudio Descalzi, ad Eni, su Repubblica), non è detto che le estrazioni entreranno tutte in Egitto. Eni prevede di vendere senza gasdotti e infrastrutture (che sono una sorta di vincolo tra estrattore e destinatario finale delle condotte), ma tramite carico e scarico dalle navi. Questo sistema sposta la vendita su un piano di “acquisto in acquisto”, nell’ottica del miglior offerente sul mercato: e non è detto che sia sempre l’Egitto (cfr poche righe sopra: «se (se!) etc etc»).

Psicoanalisi ebraica. L’indomani della scoperta la borsa di Tel Aviv ha accusato il colpo, con le azioni delle compagnie che gestiscono i due principali giacimenti off-shore israeliani (Levathian e Tamar, scoperti nel 2010) precipitate. I due reservoir rappresentavano il primato regionale ante-Zohr: erano non solo una leva per il Pil israeliano, ma pure il gancio geopolitico per rafforzare i rapporti regionali con Cipro, Grecia, Giordania, Egitto e Turchia. C’erano già le lettere d’intenti per gli accordi con l’inglese British Gas e la spagnola Union Fenosa, vettori da usare nella vendita del gas israeliano all’Egitto: sarebbe stata l’apertura del capitolo energetico nella rinnovata partnership israeliana col Cairo di Sisi, basata finora sulla collaborazione per la sicurezza a Gaza e sul Sinai (threat: Hamas e provincia egiziana dello Stato islamico).

Ma, come si diceva, il peso geopolitico del pozzo dell’Eni non è uno scherzo: se da un lato Israele vede sfumare le possibilità di vendere il proprio gas in Egitto (ammesso il “offerente sul mercato” di Eni), girandosi dall’altra parte vede l’opportunità turca. Le relazioni tra Ankara e Tel Aviv sono bloccate per una ragione formale: la storiaccia della “Navi Marmara” (nave turca diretta a Gaza sotto embargo, in cui morirono nove persone a causa di un raid delle unità speciali israeliane salite a bordo per fermarla). Ma tra i due Paesi gli scambi commerciali non si sono interrotti, con un volume che ha toccato quota 5,44 miliardi. Un’intesa energetica, sarebbe un importante segno di distensione tra due maxi-potenze mediterranee che si trovano allineate su una posizione chiave: essere entrambe apertamente contro il regime siriano di Bashar el Assad e il suo sponsor, l’Iran. Linea talmente condivisa e univoca, che sia Israele che Turchia hanno chiuso più di un occhio sulle attività dei ribelli siriani lungo i propri confini, e più volte li hanno indirettamente aiutati colpendo i governativi: e “poco importa” se i ribelli erano islamisti.

Addirittura pare sia in piedi una mediazione in Qatar condotta dal presidente Recep Tayyp Erdogan, che sta dialogando con Hamas e israeliani. Erdie vuole vincolare i futuri contratti energetici all’embargo su Gaza (l’Islam moderato di governo e di potere). Ora si dovrà aspettare le nuove elezioni turche di novembre per capirne di più, ma intanto il pozzo Eni ha scombussolato nuovamente gli equilibri geopolitici mediterranei.

@danemblog

(Foto: archivio Formiche)

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