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Perché Renzi non segue Hollande in Siria

Fa bene Matteo Renzi a tenersi fuori dal pantano siriano? A giudicare da quel che sta accadendo in questi giorni, sembra proprio di sì. Ci vorrebbe un intervento più o meno umanitario, ma non si sa bene a favore di chi. E, per la verità, sono già in molti, anzi in troppi, a intervenire ciascuno con il proprio obiettivo. Staffan De Mistura, inviato speciale Onu, pensa che la soluzione sia a portata di mano se solo si mettono d’accordo Usa, Russia, Iran e Arabia saudita. Già, ma il quartetto non suona affatto lo stesso spartito, al contrario. E’ vero, la pace si fa tra nemici, tuttavia un accordo del genere sancirebbe la divisione a fette della Siria, prendendo atto di una frattura già avvenuta manu militari.

La Siria, dopo quattro anni di guerra, non è più nemmeno un’espressione geografica. Ci sono due aree costiere, l’una attorno a Damasco e l’altra verso Latakia, tenute assieme la prima dagli Iraniani, anche attraverso Hezbollah, e l’altra dai russi che vogliono difendere le loro basi navali. Poi ci sono almeno due zone interne che l’Arabia saudita e la Turchia cercano di spartirsi, sostenendo i fondamentalisti dell’Esercito della conquista (Jaish al Fatah) contro l’Isis che controlla circa metà del territorio. I turchi ne stanno approfittando per sistemare i conti con i curdi diventati più forti e minacciosi agli occhi di Ankara. I sauditi hanno fatto il doppio e il triplo gioco: prima hanno usato l’Isis come forza di sfondamento per spaccare la Siria e far cadere Assad, adesso che il mostro è uscito dalla bottiglia, armano e foraggiano Jaish al Fatah nato in primavera per coordinare le varie fazioni jihadiste, compresa Al Nusra, legata ad Al Qaeda, marginalizzate dalle truppe del Califatto.

E gli occidentali? I francesi vogliono bombardare l’Isis, ma sono anche contro Assad, quindi in sostanza appoggiano sauditi e turchi (glissando sui curdi). Gli americani, dopo tante oscillazioni e pur evitando di mettere un solo stivale sulla sabbia, sono sulla stessa linea dei francesi. Tutti dimenticano di spiegare all’opinione pubblica dei loro Paesi che, se vincessero turchi e sauditi, nascerebbe un regime fondamentalista ancor più pericoloso per l’Occidente rispetto a quello di Assad.

Gli italiani camminano sulle uova. Roma sostiene i curdi, ma non fino al punto di mettersi contro Ankara. Non si espone su Damasco anche perché è più filo-iraniana e filo-russa della maggior parte delle cancellerie europee. Il suo interesse principale del resto è in Libia dove cerca di mettere insieme fazioni e tribù, il governo di Tripoli e quello di Tobruk, in una sorta di Loya Girga modello afghano, quindi non vuole rompere con i grandi sponsor dei jihadisti libici, ma nemmeno con l’Egitto principale avversario del Califatto in Nord Africa.

La posizione di Renzi non rispecchia un non interventismo pacifista, ma la convinzione che all’Italia convenga usare il soft power e utilizzare una diplomazia a geometria variabile (lo si è visto anche con la svolta filo israeliana, anzi filo Netanyahu). Tutto ciò ha il sapore antico della doppiezza andreottiana o della realpolitik. Ma “il grande gioco” nel Mediterraneo sudorientale è molto più complicato di quello raccontato da Rudyard Kipling che i russi, i grandi nemici dell’impero britannico in Medio oriente e in Asia centrale, chiamano in modo ancor più efficace “il torneo delle ombre”.

Gli unici in grado di rischiarare questi oscuri disegni sarebbero gli Stati Uniti, però Barack Obama è egli stesso confuso, impegnato a far digerire il boccone amaro dell’accordo con l’Iran sul nucleare. E fra poco diventerà un’anatra zoppa. Tutti lo sanno e aspettano il nuovo presidente a cominciare dai sauditi i quali mettono in moto la loro ricca e persuasiva lobby (alleata, questa vota, alla lobby israeliana), per influenzare quanto meno la scelta dei candidati alla Casa Bianca. Tanto per fare qualche nome, Jeb Bush, anche per tradizione familiare, è il più gradito ai sauditi. Di Hillary Clinton non si fidano. Donald Trump vuole chiudere la fortezza America. Sia tra i repubblicani sia tra i democratici molti, pur diffidando dell’Iran, sono convinti che l’attacco dell’11 settembre sia covato a Riyad e la vera testa del serpente fondamentalista sia in Arabia. Se è così, la crisi andrà avanti ancora a lungo, la minaccia jihadista (e non solo quella dell’Isis) si farà più pericolosa, il flusso dei profughi non diminuirà e sarà sempre più difficile trovare il bandolo della matassa. Siamo gufi apocalittici? O semplici realisti?

Stefano Cingolani

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