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Siria, cosa fanno (e cosa pensano) Stati Uniti e Russia

Martedì scorso il ministro dell’Informazione di Damasco aveva negato un aumento del coinvolgimento russo nel conflitto siriano (il presidente Bashar el Assad aveva evitato di commentare). Mercoledì sera s’è assodato l’opposto: due funzionari americani sentiti dalla Reuters hanno ammesso che negli ultimi giorni la Russia ha inviato in Siria navi e aerei (lunedì è stata fotografata la nave “Saratov”, qualche giorno prima era toccato alla “N. Filchenkov”, mentre dal cielo s’è registrato un ampio traffico di “Manny-6”, nome in codice degli aerei da trasporto militare IL-76 russi).

I funzionari confermano quello che sostanzialmente era già noto. Sono state segnalate navi da sbarco truppe e ci sono movimenti di reparti russi nell’area di Latakia; ci sono anche unità abitative prefabbricate trasportate da centinaia di persone, ed è arrivata pure una torre di controllo mobile. Indicazioni che descrivono la probabile costruzione di un base: questa notizia si aggiunge a quelle che raccontavano dell’arrivo di mezzi blindati, di registrazioni audio in cui si sente un russo impartire istruzioni a uno dei piloti di questi blindi, della costruzione di un sistema di trincee sul fronte di Latakia secondo uno schema di concezione russa; ultima, ieri il New York Times ha scritto che ci sarebbero stati anche avvistamenti non confermati di forze speciali Spetznaz presso la sede dell’Accademia navale siriana.

Il ministero degli Esteri russo ha segnalato che intorno a queste notizie si sta diffondendo una «strana isteria». La portavoce Maria Zakharova ha detto che «la Russia non ha mai fatto un segreto della sua cooperazione tecnico-militare con la Siria» e ha confermato che «specialisti militari russi sono in Siria per aiutarli a padroneggiare le armi che vengono fornite». Ma ha ribadito che «non c’è nulla di straordinario» in questo.

La Russia ha una base storica a Tartus, sulla costa mediterranea siriana, a pochi chilometri da Latakia, la città degli Assad: l’accordo risale all’era sovietica, fu siglato nel 1971 da Hafez Assad, padre di Bashar. I trasferimenti militari sono quotidiani da anni, sebbene è difficile far rientrare quello a cui si sta assistendo in questi giorni nell’ottica della quotidianità.

Dal punto di vista russo, il buildup militare ha un senso: il regime siriano, alleato storico, si trova in grosse difficoltà dopo un serie di sconfitte subite dai ribelli combattenti che sono iniziate a nord, con la perdita di Idlib, e man mano hanno fatto arretrare i governativi fino allo stretto hinterland di Latakia. Mosca vuole rassicurare Damasco e la cerchia dell’élite alawita che (chissà per quanto) sostiene il potere del rais. In Internet circolano immagini dei militari russi che si fotografano in Siria: se possono farlo senza avere divieti dai superiori, significa che la Russia vuole sottolineare la propria presenza sul territorio (alcune foto sono state geolocalizzate a Homs, non solo Tartus quindi).

A cominciare dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, passando per il portavoce della Casa Bianca, fino al più insignificante dei funzionari occidentali, le dichiarazioni di rito su quel che sta accadendo accedevano tutte allo stesso argomento: “Siamo preoccupati” ─ la linea uscita dopo la conversazione telefonica di sabato tra John Kerry e il parigrado ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.

Il ruolo e lo scopo russo continuano a non essere chiaro almeno in via ufficiale. Alcune fonti anonime dal Libano hanno riferito sempre alla Reuters che i militari russi presenti in Siria non stanno compiendo soltanto attività di advisor, ma in realtà hanno attivamente e direttamente partecipato agli scontri. Mosca nega e dice che sta spostando soldati nella sua base (Tartus).

Da qualche mese la Russia sta cercando, in collaborazione con gli Stati Uniti, di organizzare un tavolo di mediazione per valutare possibili soluzioni politiche alla crisi, raccogliendo l’adesione di una quarantina di gruppi combattenti (i russi sanno bene che il progetto è impervio, al limite dell’impossibile, ma traccheggiano diplomaticamente).

Nonostante Washington e Mosca vogliano entrambe una soluzione politica, le posizioni sono però molto distanti: gli americani sostanzialmente chiedono che il futuro della Siria sia senza Assad, i russi lo vogliono mantenere al potere. Nell’ottica della mediazione, a fine luglio i russi si sono incontrati anche con i sauditi (che sono un regno sunnita “vicino”, a vario titolo, a diversi gruppi combattenti). Anche Riad vuole togliere di mezzo Assad prima di tutto, e per questo l’incontro s’è concluso con Lavrov che definiva «idiota» il collega saudita (aneddoto ricordato su Twitter dal giornalista Daniele Raineri).

La linea russa, diffusa in via ufficiosa, suona più o meno: dobbiamo combattere il terrorismo, intanto siamo lì, poi vedremo che fare. L’obiettivo di un eventuale aumento del coinvolgimento ─ finora negato ufficialmente, si ricorda, e dunque anche questo uscito in via ufficiosa ─  sarà lo Stato islamico, tanto che il portavoce del Cremlino ha chiarito che loro credono di dover aiutare Assad perché lui è l’unico che può battere l’IS (un’uscita quanto meno opinabile). Ma non è escluso che, per stare al fianco del governo di Assad appunto, Mosca metta nell’obiettivo tutti i gruppi ribelli indistintamente.

Pochi giorni fa il governo siriano ha perso il controllo della base aerea di Abu al Duhur, uno degli ultimi bastioni rimasti al governo nell’area di Idlib. Là non c’è l’IS, ma un gruppo combattente che si fa chiamare Jaysh al Fatah composto da varie fazioni tra cui la qaedista al Nusra. Il gruppo ha già annunciato che ucciderà «i porci di Mosca come in Cecenia». È molto probabile che vederemo più facilmente interventi russi contro situazioni come quella di Idlib, piuttosto che grandi azioni per riprendere Raqqa.

@danemblog

(Foto: archivio Formiche)

 

 

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