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Non solo Nimby, in Basilicata c’è chi dice sì

“Sfatare i pregiudizi contro le estrazioni”. Con questa intenzione, alcuni lavoratori e imprenditori della Basilicata hanno manifestato mercoledì scorso davanti al palazzo della Giunta Regionale a Potenza. Un presidio al quale hanno partecipato circa 1.200 persone accorse nel capoluogo con oltre 20 autobus e un centinaio di automezzi (comprese una decina di gru). Si è trattato per la maggior parte degli imprenditori e lavoratori del cosiddetto indotto Eni della Val d’Agri che garantisce occupazione a circa 3.500 persone, di cui la metà lucani.

Accusati dai media locali di volere nuove trivellazioni, in realtà i manifestanti hanno lamentato il mancato rispetto degli accordi del 1998 e del 2006 tra Eni e Regione, sollecitando il rilascio delle autorizzazioni che dalle istituzioni tarda ad arrivare. Si tratta di opere industriali pronte a partire ormai da anni, attualmente in fase di stallo per questioni riconducibili all’indecisione politica.

Il petrolio scotta, si sa, specialmente in Basilicata, e così spesso chi deve decidere preferisce non decidere. Tra le opere elencate spicca la realizzazione del condotto Pergola 1, dei pozzi Caldarosa 2 e 3 e S. Elia7, oltre alla manutenzione straordinaria del Centro Olio di Viggiano. I lavori portano la sigla dell’Eni, ma le commesse riguardano una quarantina di imprese locali, sorte negli ultimi decenni per sostenere lo sviluppo del più grande giacimento petrolifero onshore d’Europa. Secondo i 1.800 firmatari del documento che durante la mattinata è stato consegnato al governatore lucano Marcello Pittella, questo stallo mette a rischio oltre la metà dei posti di lavoro già dalla fine del 2015. Un atteggiamento “deleterio”, si legge, che ostacola gli investimenti e quella continuità lavorativa fondamentale in un settore industriale ad alta intensità di capitale.

Al di là delle rivendicazioni, l’evento è stato l’occasione per contare le fila dei pro-trivelle, abituati a starsene ben nascosti, specialmente nei pressi di Potenza. La prima reazione, già nelle settimane precedenti alla manifestazione, si è vista da parte di Confindustria Basilicata, la quale ha difeso gli investimenti petroliferi e le ragioni delle imprese. Il giorno stesso della protesta è stata la volta del senatore Guido Viceconte (NCD), che ha chiesto il raddoppio delle estrazioni entro il 2020 ed ha accusato “le sirene del pauperismo ambientalista”, scatenando una timida insurrezione del web e dei media locali.

I sindacati, dal canto loro, non potendo permettersi una partecipazione “pericolosa” si sono scagliati contro l’Eni, colpevole, secondo loro, di aver strumentalizzato le imprese locali per i propri scopi. Dal comitato promotore non si è fatta attendere la replica: “La manifestazione è stata organizzata dal basso, non abbiamo bisogno di sigle, né di categoria, né dei sindacati, volevamo che a metterci la faccia fossero le persone che vivono e lavorano grazie all’indotto petrolifero. Gli investimenti portati avanti dalle aziende del settore sono notevoli, come le specializzazioni che le maestranze locali stanno acquisendo nel tempo”.

Una risposta velata a chi da anni sostiene che il petrolio in Basilicata ha portato solo inquinamento e cattiva reputazione. Un gesto di coraggio in un territorio dove lavorare nel settore petrolifero significa stare dalla parte sbagliata a prescindere. E soprattutto un classico paradosso all’italiana: dover perdere una giornata di lavoro per spiegare al proprio governatore che 3.500 posti di lavoro e 100 milioni di euro all’anno di royalties non sono uno scherzo.

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