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Come salvare Schengen

Prima la zona Schengen, poi la zona euro; prima la libertà di movimento all’interno dell’Unione, poi la moneta unica. Anche se non coincidono, fanno parte della stessa speranza, maturata mentre la guerra fredda volgeva al termine con la sconfitta del comunismo, un regime in cui la possibilità di muoversi liberamente senza controlli e senza visti era di per sé un attentato al sistema. Schengen e l’euro sono fatti della stessa sostanza dei sogni, concepiti per un’era di pace e benessere, l’era della tranquillità la chiamerebbero i cinesi. Entrambi sono scoppiati quando si sono abbattute crisi che coinvolgono direttamente il modo di essere e di vivere dell’Europa.

Per rimettere insieme i cocci dell’euro si è arrivati due volte sull’orlo del collasso, poi qualcuno (Mario Draghi) ha dato un chiaro segno di che cosa vuol dire leadership. Angela Merkel, sia pur riluttante, lo ha seguito finché nella primavera scorsa non ha compiuto una scelta chiara contro la Grexit evocata dal suo ministro delle finanze e da una buona parte dell’opinione pubblica tedesca.

Per recuperare se non proprio Schengen quanto meno il suo spirito, ci vorrà un’altra prova di coraggio e di leadership. Tutto è stato rinviato al vertice europeo dell’8 e 9 ottobre. Non potevano essere i ministri degli interni a decidere, occorrono scelte ai massimi livelli. Ma che tipo di scelte?

Se vogliamo continuare con il parallelismo tra l’euro e Schengen, si può dire che per trovare una via d’uscita sia pur temporanea (del resto che cosa non lo è?) bisogna trarre lezione dalla crisi dei debiti sovrani. In quella occasione si è rifiutato di mettere in discussione il trattato di Maastricht ed è stato un errore non capire che il crac del 2008 cambiava tutti i vecchi punti di riferimento. Però dal 2012 si sono compiuti alcuni passi fondamentali che vanno oltre l’antico orizzonte: il fiscal compact, il meccanismo salva stati, l’intervento attivo della banca centrale, fino all’acquisto sistematico e massiccio di titoli di stato (sia pur sul mercato secondario) considerato un tabù (e ancor oggi avversato dalla ortodossia teutonica).

Anche la crisi dei profughi deve indurre forti cambiamenti. Bisogna riscrivere la convenzione di Dublino, stabilire l’accettazione dei rifugiati in base a quote obbligatorie (un quantitative easing umano) a fronte di un rigoroso accertamento dei diritti e dei doveri, seguendo norme vincolanti (possiamo chiamarlo un fiscal compact per l’asilo).

Occorre poi stanziare i quattrini necessari a sostenere le strutture di accoglienza, pagate da tutti proporzionalmente alla popolazione e alla ricchezza (esattamente come avviene per il fondo salva stati). In più ci vogliono mezzi militari e finanziari per realizzare la lotta agli scafisti, la repressione del mercato di uomini, la prevenzione alla fonte del traffico di disperati. E un comando militare unificato per tutte le operazioni. In fondo è questa una vera prova di politica estera e di sicurezza comune.

Ogni paese, naturalmente, deve fare i compiti a casa (esattamente come avviene nella zona euro con le leggi di stabilità). Sull’immigrazione economica e sull’asilo (distinzione rigorosa e da ripetere in continuazione), i membri dell’Unione europea debbono darsi leggi, regolamenti, strutture, istituzioni, comportamenti che, pur aderendo alle specificità locali, seguano normative e linee guida comuni.

Una volta costruita questa intelaiatura, si presenta il problema numero uno: cosa succede se un paese non ci sta? È la domanda che si è posta nel caso della Grecia e ha indotto Wolfgang Schaeuble a mettere sul piatto la Grexit dalla zona euro. Bene, anche in questo caso, occorre prevedere l’uscita dal nuovo Schengen, ma con tutte le conseguenze del caso, cioè di un vero e proprio abbandono più o meno temporaneo dell’Unione (come sarebbe accaduto di fatto anche per la Grexit). La Gran Bretagna conservatrice e forse ancor più quella laburista intende tornare alla sua splendid isolation? Si accomodi, ma sapendo che questa volta gli Stati Uniti ci penseranno tre volte prima di salvarla come fecero nel Novecento. L’Ungheria vuol diventare una nuova Ucraina? I paesi baltici vogliono finire tra le zampone dell’orso russo? Sta a loro scegliere.

Oggi ogni topo si sente in diritto di ruggire perché davanti a sé vede istituzioni deboli, senza leader e senza visione. Nel momento in cui si trovasse di fronte a una realtà politica e istituzionale seria e solida, che ha scelto la propria meta e ha deciso anche con ragionevole approssimazione le tappe di avvicinamento, le cose cambierebbero. Ciò vale per stati e staterelli che, nel mondo globale, non sono in grado di sopravvivere da soli, ma anche per vecchie potenze sul viale del tramonto che s’imbellettano i volti avvizziti e incedono come Gloria Swanson in Sunset Boulevard di Billy Wilder.

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