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Uniti contro i profughi: grande campagna del Califfo (e non solo)

Il 24 settembre dell’anno 622 il profeta Maometto completò il viaggio dalla patria natia, Mecca, verso l’oasi di Yathrib, poi rinominata Medina. Il viaggio prese il nome di “hijra” e coloro che accompagnarono il Profeta divennero i “muhajirun”. Tra loro c’era il miglior amico di Maometto, il futuro califfo Abu Bakr: i due arrivarono per ultimi a Medina perché impiegarono tempo a nascondersi dai nemici del profeta che in patria cominciavano a vederlo come un rischio per la stabilità (e pure per certi interessi economici). La hijra non rappresenta però una “fuga”: fu piuttosto l’atto di fondazione del nucleo iniziale di uno stato islamico. Per capirci, il calendario islamico inizia dal 622.

È chiaro che l’egira (italianizzazione di “hijra”) ha un valore dogmatico altissimo. Ed è altrettanto chiaro ─ al netto di facili e dolose speculazioni sull’Islam ─ comprendere come il viaggio verso lo stato islamico abbia valore centrale nell’attuale predicazione del Califfo Baghdadi: infatti da sempre, fin dall’istituzione del nuovo Califfato, i baghdadisti hanno ripetuto che tutti i musulmani dovevano andare a vivere nello Stato islamico. La narrativa del califfato ha raccontato come quel pezzo di mondo (in espansione) fosse un luogo puro, prospero, sereno, lontano dall’impurezza occidentale, il posto dove ogni musulmano osservante doveva vivere ─ questione abbastanza lontana dalla realtà, chiaro, ma frutto della lente offuscata dal radicalismo. “Venite qui, completate la vostra hijra personale” dicevano diversi messaggi del Califfo e dei suoi portavoce: tanto che per chi non poteva partire, chi era costretto a continuare a vivere sporcato dall’Occidente, si consigliava di compiere attentati per colpire e punire gli infedeli con qualsiasi mezzo. La potenza evocata dal Califfato, la terra dell’Islam (Dar al Islam), è stata talmente tanto forte che abbiamo preso familiarità con termini come “foreign fighters”: i combattenti stranieri, che hanno acquisito il ruolo di muhajirun perché hanno intrapreso il viaggio per combattere il jihad al fine di costruire e difendere lo stato islamico ─ il fenomeno fu registrato per la prima volta con la rivolta talebana antisovietica in Afghanistan, quando in aiuto dei fratelli accorsero combattenti stranieri: quello fu il primo jihad globale, e quelli i primi muhajirun di epoca moderna. E anche la presenza di questi combattenti, rientra tra i termini della propaganda dell’IS: un vanto aver attirato “soldati” da ogni parte del mondo; un prezioso input da diffondere per scaturire l’emulazione degli altri musulmani. Perché la propaganda del Califfo, non guarda solo ai combattenti: i mercati pieni di generi alimentari, le strade ripulite dalla criminalità, il sogno di una terra amministrata dalla e con la fede, devono essere un’attrattiva per i credenti di tutto il pianeta. Dovevano e devono essere un invito alla hijra.

Inquadrare il tutto all’interno della questione profughi e rifugiati in arrivo in Europa, basta per comprendere come la situazione avveleni gli umori del Califfo. Se in questo momento ci sono migliaia di persone disposte a rischiare la vita pur di fuggire dai suoi territori, allora quello che esce è un messaggio assolutamente negativo: chi è là (in Siria e in Iraq) fugge, quindi non si vive poi così bene, quindi meglio non andarci. In più c’è pure un aspetto pratico: lo Stato islamico deve molto a coloro che hanno deciso di appoggiare il jihad e da altri paesi hanno viaggiato verso Siria e Iraq. Sono una risorsa irrinunciabile.

Per far fronte all’emergenza, l’apparato mediatico del Califfato ha sincronicamente organizzato una campagna per convincere chi vuole fuggire verso l’Europa (e godere dello stato di rifugiato nella Dar al Kufr, la terra degli infedeli), a rimanere all’interno del territorio amministrato dal gruppo. Si tratta di video che contrastano per esempio le immagine dei profughi accolti tra gli applausi in Germania, o quelli del bambino siriano che ha incontrato il suo mito Cristiano Ronaldo, che stanno caratterizzando questa fase di sensibilizzazione (momentanea?) al problema. Dai media dell’IS viene mostrata la parte più cruda del viaggio verso l’Occidente: i naufragi, la polizia che picchia i profughi in fila sotto la pioggia, e via dicendo. «Il compito è ambizioso ─ spiega Daniele Raineri sul Foglio ─ Devono persuadere uomini e donne siriani che la vita nello Stato islamico (questa vasta e arida terra di nessuno governata con ferocia e sorvolata dai droni) è meno attraente della vita in uno stato dell’Europa occidentale». Raineri, che è un giornalista molto esperto di Medio Oriente e delle vicende dello Stato islamico, fa anche notare che «i video sono girati e montati da professionisti, durano in tutto più di un’ora e tradiscono uno sforzo senza precedenti, che non era stato fatto per gli altri grandi temi dello Stato islamico, come la guerra o le ricorrenze religiose».

In realtà i profughi non fuggono soltanto dalla ferocia dell’amministrazione califfale, ma anche dai territori gestiti dalla spietatezza di Bashar el Assad, dove le diserzioni alla leva obbligatoria sono diventati una sorta di fenomeno sociale tra i ranghi dei lealisti; dall’altra parte, quella di chi si oppone al regime, o ci s’è messi in armi o si è già un profugo tra i sette milioni interni o i quattro esterni provocati dalla guerra civile siriana. Anche le linee dei ribelli (gli altri, quelli “no-IS”) cominciano a perdere uomini, comunque: «Lo sceicco saudita al Moheisni, un capo religioso vicino al Jabhat al Nusra ─ scrive Raineri ─ ha pubblicato una fatwa contro chi parte per l’Europa la settimana scorsa». E pure nei territori curdi vengono diffusi messaggi per scoraggiare “le fughe”. Perfino le milizie sciite, corpi armati mobilitati dall’Iran, a cui sono fedelissime, e dagli ayatollah filo-iraniani locali, iniziano ad avere lo stesso genere di problemi.

Alleanze anti russe

La guerra ha logorato ormai anche gli animi più ideologizzati: la paura del presente e l’assenza di un panorama futuro, sta facendo fuggire non solo i civili ma anche i combattenti.

E mentre per alcuni l’intervento russo potrebbe rappresentare l’apertura di una strada verso la soluzione della crisi, sul campo si segnalano scenari preoccupanti. Uno di questi: la Jaysh al Muhajireen wa al Ansar si sta unendo alla Jabhat al Nusra (l’affiliazione di al Qaeda siriana). Il gruppo JMA, nato nel 2012 come Muhajireen Brigade, è essenzialmente costituito da ceceni e altri combattenti russofoni (ma anche sauditi e libici): ceceni, georgiani, daghestani, ucraini, uzbeki, furono tra i primi muhajirun accorsi a combattere il jihad sul suolo siriano. La brigata ha avuto tra i leader Omar al Shishani (aka “il Ceceno”), combattente islamista georgiano ora passato tra le linee del Califfato, dove occupa un importante ruolo di comando militare. Quando la baya di Omar il Ceceno ha spostato i suoi uomini verso l’IS, altri combattenti sono rimasti in JMA: il loro capo adesso è Salahuddin al-Shishani ─ nome che era uscito in marzo, quando Reuters aveva parlato della possibilità, poi smentita, di un rebrand di al Nusra “lontano” da al Qaeda: secondo l’agenzia britannica, ci sarebbero stati incontri tra il leader qaedista al Goulani (capo di JN) e il capo jihadista ceceno.

Ora che la Russia è scesa apertamente e platealmente in campo al fianco del regime siriano, i gruppi sul campo ─ per lungo tempo un universo frammentato ─ potrebbero iniziare ad unirsi in vista del rafforzamento dell’avversario. Oltre al joining di JN e JMA, si parla di altre tre entità minori che sono confluite tra le linee della formazione qaedista solo nell’ultima settimana.

@danemblog

 

 

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